Emilia Salvioni
Una scrittrice ritrovata |
Alcuni articoli on line su Emilia Salvioni:
http://www.noidonne.org/index.php?op=articolo&art=1052
http://www.aib.it/aib/editoria/dbbi20/salvioni.htm
http://galassialibri.blogspot.com/
http://www.libriincantina.it/news.php?n=6
http://it.wikipedia.org/wiki/Emilia_Salvioni
L’AZIONE 23 ottobre
2007
IL RITORNO DI EMILIA SALVIONI
La scrittrice sepolta a Pieve di Soligo al centro di un programma di
rivalutazione che impegna anche il Comune di Pieve di Soligo
Antonio Menegon
Emilia Salvioni, prima scrittrice di una “galassia sommersa” che Antonia Arslan intende riportare alla luce.
Una giornata di studio al Festival della Letteratura a Mantova il 5 settembre e un incontro a Susegana il 16 settembre, nell’ambito della Mostra nazionale della piccola e media imprenditoria “Libri in cantina” hanno permesso di fare il punto su una scrittrice, la pievigina Emilia Salvioni, appunto, che pur evrndo pubblicato per Mondadori, vinto premi letterari e diretto una collana di libri al femminile per la Cappelli, non riuscì mai ad affermarsi completamente sulla scena della cultura nazionale.
“Abbiamo voluto buttare il cuore oltre l’ostacolo con un progetto che è una speranza e una proposta- spiega la scrittrice Antonia Arslan-. In generale l’idea è quella di riscoprire quella galassia sommersa di autrici italiane di ieri e di oggi di cui si ignora l’esistenza, ma che sono di grande valore. E si è cominciato con Emilia Salvioni, una donna che scriveva per narrare ciò che di solenne e di minimo le stava intorno, per dare ai suoi lettori il senso della gioia e della fatica di essere”.
Ascritta all’area delle scrittrici cattoliche, Emilia Salvioni, nata a Bologna nel 1895, è stata in realtà una figura inquieta. che spesso si è interrogata sulla giustezza della morale a cui era ispirata la sua educazione di ragazza rimasta precocemente orfana della madre. Una scrittura colte e semplice allo stesso modo caratterizza i suoi romanzi; un’ambientazione dei romanzi in cui il lettire della provincia si riconosce, e ancor di più si riconoscono i lettori di Pieve di Soligo, dove Emilia ha soggiornato a lungo e dove è sepolta dopo la morte che l’ha colta nella natia Bologna il 4 giugni 1968.
Con la donazione di moltissimi documenti (lettere, minute, cartoline, fotografie, i dattiloscritti originali dei romanzi ed anche un inedito) al comune di Pieve di Soligo, da parte di Amalia e Maria Corrà e da Emilietta Schiratti, nella biblioteca civica è nato il “Fondo Salvioni”.
Il progetto di valorizzazione della scrittrice pievigina ha così in punto fermo propriop nella documentazione depositata in un apposito spazio della biblioteca, ma è la ripubblicazione di tre opere della Salvioni (“Angeliche Colline”, “Lavorare per vivere” e “Carlotta Varzi S.A.” ) a rilanciare prepotentemente la figura della Salvioni. Si accorgono di lei le donne dell’Aidda, l’associazione delle donne imprenditrici e dirigenti d’azienda che rimangono incantate dalla figura di Carlotta, protagonista del romanzo riedito nel 2006 da Canova.
CORRIERE DEL VENETO 25
agosto 2007 Cultura
& Tempo Libero
LA “GALASSIA SOMMERSA” DI EMILIA SALVIONI
di A.G.
“Esistono decine, centinaia di scrittrici italiane che hanno prodotto romanzi brillanti e che sono però state oscurate dall’oblio del tempo. Con questa rassegna abbiamo deciso di puntare la nostra attenzione su una di queste: Emilia Salvioni, sensibile romanziera di Pieve di Soligo”. Parole di Antonia Arslan, autrice de La masseria delle allodole e curatrice della rassegna “La galassia sommersa”, giornata di studio dedicata alla scrittrice Emilia Salvioni, a cui il comune di Pieve di Soligo ha recentemente dedicato un museo che raccoglie il suo archivio di novelle e romanzi, alcuni mai pubblicati.
“Uno di questi si intitola Carlotta Varzi S.A. – spiega l’autrice padovana- un’opera appassionata, immersa in un’atmosfera fondamentalmente drammatica. Purtroppo un romanzo che per molto tempo è rimasto intrappolato tra le pieghe del tempo e della dimenticanza. La giornata di Mantova costituisce una sorta di riparazione di questo involontario torto. Alla riscoperta di questa autrice siamo stati aiutati da alcuni studiosi delle università americane: è quantomeno singolare che Emilia Salvioni sia conosciuta oltreoceano mentre qui giacciono nell’oblio”.
GAZZETTA DI MANTOVA
08 settembre 2007
ANTEPRIMA DU FESTIVAL AL ROTARY MANTOVA
SUD
UNA SERATA CON L’AIDA E ANTONIA ARSLAN
di
Davis Raddi
QUISITELLO. Anticipazione del Festival Letteratura all’Ambasciata di Quisitello con il “Rotary Mantova Sud”. Una serata all’insegna della cultura e del talento della donna si è svolta nel tempio del gourmet all’Ambasciata di Quistello, dove tutto era curato nei minimi particolari per il “Rotary Mantova Sud” guidato dal cavalier Ferdinando Bombarda, che ha accolto l’Associazione Aidda (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti D’Azienda) in una piacevolissima serata all’insegna delle donne nell’impresa e nella lettura. Gradita ospite la professoressa Antonia Arslan dell’Università di Padova, nonché autrice de “La masseria delle Allodole” ed ospite del Festivaletteratura, che ha tracciato un excursus del ruolo della donna in veste di scrittrice e poetessa. “Occorre riscoprire queste figure di donne- ha detto Arslan- che hanno dato un contributo al pensiero e alla letteratura. Donne coraggiose, scrittrici e giornaliste, inspiegabilmente dimenticate o taciute, che hanno invece dimostrato una grande conoscenza e capacità imprenditoriale nella società italiana”. Un connubio di valori, capacità r talento tra scrittura e mondo imprenditoriale femminile, condiviso dal “Rotary Mantova Sud”, vista la presenza di Beatrice Biancardi (socia del Club oltre chi di Aidda), è ciò che la serata del “Rotary”, ha voluto sottolineare, grazie alla partecipazione dell’associazione delle donne imprenditrici, guidata da Laura Frati Gucci, che ha messo in rilievo quella particolare “sensibilità” legata al cuore, che il mondo femminile delle donne, capaci di fare impresa, possiedono come peculiare valore aggiunto. Con la professoressa, è intervenuta Luisa Cigagna, assessore alla cultura del Comune di Pieve di Soligo, curatrice del fondo Salvioni. Nella serata sono state ospiti Mara Borriero e Stefania Mazzola, rispettivamente presidenti Aidda della delegazione Veneto-Trentino Alto Adige e di Mantova.
L’AVVENIRE 05
settembre 2007 Agorà
cultura religioni tempo libero e sport
EMILIA SALVIONI, “FEMMINISTA” DA SCOPRIRE
di Daniela Pizzagalli
“Un simile temperamento d’artista prima o poi vincerà”, diceva Marino Moretti negli anni ’50 di Emilia Salvioni, scrittrice molto prolifica tra narrativa per adulti e per ragazzi, novelle, teatro, biografie storiche, collaborazioni a giornali e riviste, in particolari quelle ventennali presso “L’Avvenire d’Italia”, l’”Osservatore Romano” e “Alba”. Abbastanza affermata durante la vita, anche come membro attivo della cerchia intellettuale di Bologna, giurata in importanti premi letterari, direttrice di una collana “rosa” per l’editore Cappelli, la Salvioni è stata rapidamente dimenticata dopo la morte, avvenuta nel 1968. Di recente si è offerta la possibilità di una riscoperta della scrittrice veneta- che, sebbene nata a Bologna dove il padre era docente universitario, si dichiara “veneta per quattro quarti” per le origini familiari- grazie a nuove edizioni di alcuni dei suoi libri più significativi, come i romanzi “Lavorare per vivere” e “Carlotta Varzi S.A.”, e la raccolta di elzeviri “Angeliche colline” (Guerini e associati) pubblicati a cura del comune di Pieve di Soligo, dove la Salvioni trascorreva le vacanze, in una casa di famiglia molto amata, sfondo di tante belle pagine letterarie. Custode, grazie alla donazione degli eredi, dell’archivio della Salvioni, il comune di Pieve di Soligo ha affidato a un comitato scientifico presieduto dall’accademica e scrittrice Antonia Arslan, fervida ricognitrice della “galassia sommersa” delle scrittrici italiane, il compito di ricordare l’autrice attraverso un convegno: una sfida che l’Arslan intende sviluppare riproponendo ogni anno una scrittrice dimenticata, appartenente a una diversa regione, in una sorta di percorso letterario al femminile attraverso la Penisola. Di Emilia Salvioni si parla anche al Festivaletteratura di Mantova, oggi alle 18. Scrivere, per la Salvioni, non significò mai appagare un’ambizione, ma un’esigenza di comunicazione che- come affermò in una lettera- restò insoddisfatta: “Credo di non aver mai scritto, o ben di rado,senza una ragione, che lì per lì mi sembrava valida e urgeva, salvo scomparire addirittura appena licenziate le bozze. Se la letteratura mi è stata causa più di tormento che di gioia, una ragione ci deve essere, o nella qualità del mio lavoro o nella scontrosità del mio carattere, per cui sono rimasta sempre isolata”. Nei romanzi di Emilia Salvioni- i più intensi sono quelli a cavallo della seconda guerra mondiale- dominanti figure femminili al bivio di snodi esistenziali che da una parte che da una parte promettono nuove libertà e spazi di emancipazione, ma dall’altra rischiano di travolgere i capisaldi etici della tradizionale cultura femminile. Ad esempio in “Lavorare per vivere” Angelica Urban, in difficoltà economiche dopo la morte del padre, si presenta autodidatta all’esame magistrale, rifiutando una tardiva proposta di nozze del cugino, così come Carlotta Varzi, insolita imprenditrice, non si concederà il conforto di pur agognati cedimenti emotivi. A prevalere, quasi malgrado le ispirazioni anticonvenzionali dell’autrice, che s’intuisce tormentata dai dubbi, sarà la forza di volontà, che non senza sofferenze saprà imporre una visione più alta: “Come mai gli uomini, cos’ spesso vinti nei loro nobili disegni, continuano a lodare, ad amare le virtù? L’istinto, le passioni, ogni loro desiderio avrebbe piuttosto dovuto spronarli ad abbandonarla come un vuoto miraggio... Invece la virtù e la saggezza stanno al di sopra di tutto, dominano il destino, indifferenti come le montagne solenni”.
L’AZIONE 16
settembre 2007
ANTONIA E LE ALTRE
Da venerdì 14 la mostra nazionale della piccola e media
editoria omaggia l’ingegno femminile
Ingegno femminile, cultura
dell’ambiente, educazione e didattica sono i temi della quinta edizione
“Libri un cantina”, la mostra nazionale della piccola e media editoria, che
venerdì 14 e domenica 16 settembre si tiene a Susegana, nella prestigiosa sede
del castello di San Salvatore.
Intorno ad una sessantina di editori, che nei piani nobili di palazzo Odoardo
propongono la loro produzione originale e indirizzata su specifiche tematiche,
sono in programma numerosi appuntamenti a cominciare con gli incontri con
L’astrofisica Margherita Hack, la scrittrice Antonia Arslan, la ricercatrice e
giornalista scientifica Maddalena Jahoda, l’attore e scrittore Giuseppe
Cederna, Gianni Secci dei Belumat, solo per citare i personaggi più conosciuti.
L’ingresso a tutti gli eventi è libero. “Il comune di Susegana ha avuto il
coraggio di promuovere questa iniziativa a favore della piccola editoria, che
vive senza appoggio, con grande forza e spirito imprenditoriale- osserva il
direttopre artistico di “Libri in cantina” Roberto Da Re Giustiniani-. Chi
verrà in castello sabato e domenica potrà trovare libri che molto spesso non
si trovano in libreria, libri originali, frutto dell’atteggiamento di curiosità,
ingegno e voglia di sperimentazione che la grande editoria non ha più”. Nella
serata di venerdì “Libri in cantina” apre i battenti alle 21, nella sala
Conti di Treviso nel secondo piano di palazzo Odoardo, con il preludio musicale
che vede protagonista il Gruppo D’archi veneto diretti da Franco Poloni.
Sabato e domenica la mostra nazionale della piccole e media editoria entra nel
vivo. L’inaugurazione ufficiale con le autorità e la principessa Trinidad di
Collalto, che anche quest’anno farà da madrina all’evento, è prevista
sabato alle 10.30. Poi un susseguirsi di incontri con autori, presentazione di
libri, laboratori didattici, proposte di creatività e curiosità culturali,
come il “Gioco dei sigilli” proposto dall’artista coneglianese Gianni
Sartor. Promossa dal comune di Susegana, con la Regione Veneto, la provincia di
Treviso e numerosi sponsor privati, la mostra nazionale della piccola e media
editoria “Libri in cantina” ha come valore aggiunto l’ambinte di grande
fascino e originalità qual è il Castello del Casato Collalto dove l’evento
ha luogo.
Ma veniamo alle donne, protagoniste indiscusse della quinta edizione. L’astrofisica Margherita Hack, figura di spicco della ricerca astronomica nel nostro paese, presenta il libro “L’universo di Margherita” (editoriale scienza) alle 21 di sabato. Domenica alle 11.30 la biologa marina Maddalena Jahoda, che nel 1986 era nella pattuglia dei pionieri che partì alla ricerca dei grandi mammiferi in Adriatico, presenta il libro “Le mie balene. I cetacei del Mediterraneo visti da vicino” (Mursia). Introdotta dall’assessore alla cultura del comune di Pieve di Soligo Luisa Cigagna, Antonia Arslan presenta domenica alle 16.30 il libro “Carlotta Varzu S.A.” (Canova Edizioni), uno straordinario romanzo della pievigina Emilia Salvioni, scrittrice dimenticata del ‘900 per cui la Aslan sta dedicando non poche energie a beneficio di una sua riscoperta e valorizzazione. Da segnalare anche l’incontro con Gianno Secco dei Belumat in programma sabato alle 17.30, quello con Fabio Gava, Rina Biz e Paola Pagotto che alle 10 di domenica presentano il libro “Genitori in movimento”, l’incontro con Giampiero Rorato sulla grande cucina regionale alle 18.15 sempre di domenica e, ancora domenica, ma alle 18.30, l’attore e scrittore Giuseppe Cederna presenta il libro di Vittorio De Savorgnani “Cansiglio Nostra Signora”.
La mostra suseganese è anche una ghiotta occasione per visitare il castello di San Salvatore, generalmente chiuso al pubblico, ma anche per immergersi nell’ambiente ancora incontaminato delle colline che lo circondano. La mostra nazionale della piccola e media editoria “Libri in cantina” chiude i battenti domenica alle 20. Il programma completo è pubblicato sul sito www.libriincantina.it.
Una donna imprenditrice, degli anni ’30, ma con le
stesse fragilità di oggi. è Carlotta Varzi, protagonista dell’ omonimo
romanzo di Emilia Salvioni, riedito dalla casa Canova di Treviso e curato da
Carlo Caporossi. La scrittrice, di Bologna ma pievigina da parte di madre, morta
nel 1968, viene ritrovata grazie al comune di Pieve di Soligo, che dopo aver
ridato alle stampe i racconti Angeliche colline e il romanzo Lavorare per
vivere, grazie all’ Assicurazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’
Azienda, fa tornare alla luce quest’ opera. Il romanzo scritto nel 1941 e dato
alle stampe nel 1947, narra di una giovane donna che sogna di diventare maestra,
un modo, per emanciparsi. Il padre però morirà e lei,primogenita, dovrà
portare avanti l’ attività di famiglia, un panificio. Si dedicherà anima e
corpo a questa attività, dalla quale poi nascerà una fabbrica. Sposerà un
uomo molto più anziano di lei, che morirà mentre si trova al culmine della
carriera. La vita la metterà di fronte a diversi momenti affettivi e ad un
certo punto dovrà scegliere tra una vita sentimentale felice e un successo
imprenditoriale. La storia è un po’ anche quella di Emilia Salvioni, che ha
dedicato la sua vita alla scrittura (60 opere e collaborazioni con 35 testate) e
che ha vissuto, si potrebbe dire, in una povertà di opportunità personali.
Alla docente universitaria Atonia Arslan si deve la riscoperta della scrittrice
pievigina, quando nel 1984, ne affidò lo studio, come tesi di laurea, ad una
sua studentessa. Presentazioni al pubblico: giovedì 8 giugno, alle 17, a
Palazzo Rinaldi a Treviso e sabato 10 giugno, alle 18, nell? Auditorium
Battistella Mccia di Pieve di Soligo. (Salima Barzanti)
PIEVE: ripubblicato un romanzo di Emilia Salvin. é
stato pubblicato dalla casa editrice Canova, il romanzo “Carlotta Varzi
S.A.”, composto nel 1941 dalla valente scrittrice Emilia Salvioni,
particolarmente legata a Pieve di Soligo perché pievigina, per parte di madre.
Autrice sensibile e attenta alle tematiche dell’ affermazione femminile nel
mondo economico, la Salvioni tratteggia nell’ opera, con acuto realismo, la
figura di una capitana d’industria degli anni Trenta, tale Carlotta Varzi, che
sacrificherà vita e affetti per consolidare l’ attività artigianale del
padre fornaio. La riedizione del romanzo, pubblicato per la prima volta nel
1947, è stata promossa dal comune di Pieve di Soligo, nelle vesti dell’
assessore alla cultura Luisa Cigagna e sostenuta finanziariamente dall’Aidda
(associazione imprenditrici donne e dirigenti d’ azienda). L’ opera sarà
presentata al pubblico in due eventi distinti: giovedì 8 giugno, a palazzo
Rinaldi, a Treviso alle 17 e sabato 10 giugni all’ auditorium Battistella
Moccia a Pieve di Soligo. Appuntamenti nei quali interverranno come relatori
Atonia Arslan e Carlo Caporossi, curatori della riedizione a Patrizia Artuso,
insigne studiosa dell’ opera letteraria di Embolia Salvioni.
Da
La Tribuna di Treviso, giovedì 28 settembre 2006
IL
LIBRO CARLOTTA VARZI
«Mettere in lettera i miei poveri sospiri…»
da
"Il Veltro. Rivista di civiltà italiana", 1-2 Anno XLVIII.
Gennaio-Aprile 2004
La recente
ripubblicazione di due opere di Emilia Salvioni,[1]
nello scorso autunno, ha riportato in luce il nome di questa scrittrice dopo un
oblìo di molti anni, grazie all’autorevole interessamento di Antonia Arslan
Veronese e alla passione di Patrizia Artuso. È stata una felice riscoperta non
soltanto per quanto concerne la scrittura della Salvioni, ma anche per la
possibilità di ripercorrere la sua esperienza umana ed intellettuale che offre
interessanti motivi di riflessione, soprattutto ora che la si può osservare col
distacco che il tempo necessariamente impone e che, in un caso come questo,
gioca a favore dell’autrice.
Contestualizzata
storicamente come piuttosto marginale ai fermenti dei suoi tempi, collocata
geograficamente in uno spazio molto limitato, Emilia Salvioni si rivela uno di
quei casi, frequenti quando si parla di scrittrici, in cui una pur attenta
analisi dell’esperienza di vita e di scrittura, da sole, non consente di
cogliere appieno il valore – che è globale – del personaggio, soprattutto
se quello stesso personaggio sembra vivere una storia a sé, all’interno del
panorama culturale: fuori dai grandi circuiti letterari, caratterialmente aliena
da una “visibilità” pubblica, connotata da un’esistenza povera di eventi,
non fa meraviglia che Emilia presto sia stata dimenticata. Poterla rileggere e
poter riparlare di lei è dunque anche un’occasione per un’indagine
retrospettiva volta a cogliere gli aspetti meno evidenti del personaggio
Salvioni, che in un caso simile sono i più significativi, per comprendere un
valore più profondo dell’esperienza culturale oltre che esistenziale di
Emilia, aspetti che offrono una sorta di valore aggiunto che completa, riassume
la donna e la scrittrice in un unicum
spirituale di alto livello.
La vita di Emilia
Salvioni, che copre un arco di tempo dal 1895 al 1968, altro non è che
l’esistenza di una tipica “signorina di provincia”, figlia di una buona
borghesia della campagna trevigiana, Pieve di Soligo, pur essendo nata a Bologna
nel 1895, dove il padre insegnava Statistica all’Università. Rimasta presto
orfana di madre, interruppe gli studi regolari dopo il ginnasio e ricevette la
solita educazione riservata alle signorine di buona famiglia, preparate ad
entrare in un mondo pensato dagli uomini, creato per gli uomini e soltanto subìto
dalle donne. Ma al di fuori di questo ritratto, quasi un cliché,
applicabile anche a molte altre storie femminili, Emilia fu una di quelle donne
che “crebbero da sé”, si istruirono profondamente con l’osservazione, la
sensibilità, la volontà di seguire un cammino verso una vetta spirituale e
culturale, l’insaziabilità di conoscere e la capacità successiva di
selezionare, di evolvere in cultura l’erudizione, di fare dello studio una
materia di vita, e di trasferire presto nella scrittura l’analisi del mondo e
dello spirito umano appresa studiando e vivendo. Esperienze compiute in sordina,
fra molte difficoltà: ma sono queste le condizioni in cui si forma uno spirito
tenace, una personalità definita, e sembra così di vedere in Emilia
l’immagine di una donna che visse sì “in punta di piedi”, per indole,
formazione e necessità, ma con straordinaria intensità, tenacemente silenziosa
e presente, organizzata nella sua vita, razionale, una donna precocemente matura
che senza strepiti riuscì a fare della realtà il prodotto della sua volontà.
Allo stesso modo, con lo stesso stile, la sua cultura fu vastissima e profonda,
ma, parafrasando il bel ricordo di Emilia scritto da Deda Pini, era una cultura
che “non si vedeva”, per così dire. La si scopriva a poco a poco dietro
quel suo sorriso fine e arguto, quel suo dire semplice e modesto, e una volta
scoperta non se ne toccava mai il fondo.
L’autodidatta
Salvioni nel 1927, spinta dalla necessità di lavorare per vivere, divenne
bibliotecaria presso l’Istituto Giuridico di Bologna e vi rimase fino ad un
anno prima della morte, alternando al lavoro la scrittura, che le occupò ogni
momento libero, con un ordine, sembra quasi di poter dire una “pulizia” di
vita che la distinse in ogni ambiente che si trovò a frequentare. Allo stesso
modo, se Bologna fu sempre la città del lavoro e della scrittura, Pieve di
Soligo costituì per tutta la vita il buen
retiro, il luogo del riposo, degli affetti, delle origini, e qui è tutta la
geografia di Emilia, come quella di tante altre donne che nell’intera loro
esistenza varcarono di poco e raramente la soglia di casa. Ma dietro al lavoro,
agli affetti, all’amore per la propria terra d’origine, ad un’esistenza
metodica e povera di eventi, visse uno spirito che non cessò mai
dall’indagine introspettiva e critica, che operò un acuto scandaglio della
realtà, anche in quegli spazi così limitati. La Salvioni non fu una
rivoluzionaria, non attese né avrebbe approvato il trauma di un cambiamento
radicale della società, ma pur dalle sue posizioni conservatrici visse, osservò
e scrisse, con un atteggiamento di indagine critica, la sua “provincia”,
luoghi e persone, che nelle sue opere divengono trasposizioni letterarie di una
materia vissuta, non semplici realtà raccontate: e “vissuta” vuol dire
soprattutto analizzata, criticata, esaminata con gli occhi di chi riesce a
conoscere attivamente ciò che vive poiché prima lo ha osservato con rispetto e
attenzione, poi l’ha penetrato e fatto suo con intelligenza e sensibilità,
conservando in ogni caso una salda autonomia morale, non cedendo mai ad
un’acquiescenza acritica. Tutto quel che si presenta come un racconto è
invece la vita, perché Emilia raccontando vive i suoi luoghi e le sue persone,
le interpreta perché le conosce intimamente ed anche il ricordo, alla fine,
diviene un “rivivere” insieme al lettore.
È dunque una
scrittura complessa, quella di Emilia Salvioni, dalle tante valenze che si
possono indagare e scoprire dietro una semplicità soltanto apparente che è sì
di vita e di forma, ma non di pensiero; scrittura e vita si saldano in maniera
inscindibile senza dichiarate pretese intellettuali ma non per questo senza una
potenza d’intelletto. Emilia sa bene ciò che vuole e ciò che fa, scrive
della propria vita e insieme vive nella propria scrittura: questo è ciò che
sta dietro la donna “in punta di piedi”, che sembra chiedere “scusi” e
“permesso” ovunque vada, ma il cui passo non trema. E proprio sulla sua
consapevolezza di scrittrice, che comprende anche una non meno importante
consapevolezza di essere umano, il carteggio con Arnoldo Mondadori offre un
documento di inaspettato valore. Quella che nasce come una semplice
corrispondenza di lavoro diviene, alla fine, una testimonianza morale ed umana
di Emilia Salvioni in lotta con la vita.
*
* *
Leggendo la nota
biografica a cura di Amalia Corrà, nipote di Emilia Salvioni, posta in calce
alle recenti riedizioni, avevo visto che vi era stato un pur breve rapporto
editoriale fra la Salvioni e Mondadori: nel 1934 l’editore milanese le pubblicò
il romanzo Danaro e sul finire del
1937 I nostri anni migliori. Si
trattava della prima importante casa editrice, per un’autrice che all’epoca
aveva soltanto pochi titoli pubblicati alle spalle, con piccoli editori.
Cercando alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori qualche testimonianza di
quel rapporto editoriale, mi sono trovato di fronte ad un singolare carteggio
che, partito come una necessaria corrispondenza di lavoro, a séguito dello
sviluppo di una serie di eventi critici finisce per diventare un’alta
testimonianza umana, un manifesto di dignità letteraria e intellettuale come
non sempre si riesce a trovare. Se in una scrittrice come Emilia Salvioni, e lo
si è visto, è importante scoprire ciò che sta occulto, dietro la prima
immagine ch’ella dà di sé, questo carteggio costituisce una prova evidente
di “quel che c’è dietro” alla semplice figura di Emilia, e rivela non
soltanto la straordinaria potenza della sua scrittura epistolare ma anche la
battaglia, avvincente e bellissima, fra due persone costrette dai diversi ruoli,
l’editore e lo scrittore, a combattersi, ma fra le quali la schermaglia
finisce per travalicare gli aspetti del semplice rapporto di lavoro e diventa lo
scontro – si potrebbe dire addirittura lo scontro titanico – di una piccola
donna onesta che reclama con coraggio e forza, ad un grande personaggio, una
giustizia morale più che la riparazione di un torto contingente.
Il 24 febbraio 1934
Arnoldo Mondadori scrive ad Emilia che pubblicherà Danaro.[2]
L’editore aveva già avuto notizia di questa nuova autrice dalla sua stessa
Accademia che l’aveva segnalata prima per una commedia, poi per una raccolta
di versi e per lo stesso Danaro. Quel
romanzo era peraltro piaciuto a Marino Moretti che, in una lettera a Aldo Valori
così ne parla:
…
Farò subito qualcosa (tutto quel che potrò fare) per la brava Emilia Salvioni.
Parlerò con Mondadori e anche con Tumminelli (Treves); ma i tempi – lo sai
– son difficili. Pubblicare un libro – così dicono questi signori – è
fare un pessimo affare. Bisogna almeno che un libro d’ignoto esca vincitore
d’un concorso d’una certa portata, come sarebbe quello Mondadori. Io
consiglierei sempre la Salvioni di mandare il manoscritto al concorso
mondadoriano per il romanzo che si chiude il 31 dicembre 1932 (troppo tardi?).
Ho molta fiducia anch’io in questa scrittrice. T’ho già detto che ammirai
molto i suoi versi (che furono annoverati fra i migliori, ma, purtroppo, non
vinsero) e la graziosissima commedia dell’anno scorso. Un simile temperamento
d’artista prima o poi vincerà.[3]
Un buon
riconoscimento era giunto anche da Pietro Pancrazi, in una lettera a Peppino
Dore del dicembre 1931:
…
Del libro della signorina Salvioni mi aveva già parlato un dei giudici del
Premio Mondadori, e me ne aveva detto molto bene. … Mi pare proprio che
l’ingegno, la vena della scrittrice questa volta ci siano, anche se ancora
allo stato un po’ generico. Forse le gioverebbe rinunciare un po’ alla
nativa facilità, e condensare e incidere di più. Ma già ci sono equilibrio e
proporzione nel racconto, che sono doti rare, specie nelle donne e nelle donne
giovani.[4]
Danaro
fu pubblicato nel 1934 in 3222 copie, di cui 1430 soltanto vendute, come
l’editore riferirà, scontento, tre anni dopo. S’erano quindi ancora una
volta avverate le parole di Moretti: un romanzo era un pessimo affare e sembra
qui di risentire le parole di Treves ad Annie Vivanti, di molti anni prima:
“Signorina, noi siamo qui per fare degli affari”… e stavolta non c’era
un Carducci che venisse in soccorso di Emilia!
Visto il precedente,
al momento di ricevere il manoscritto successivo, quello che poi sarà I
nostri anni migliori, Mondadori non si sbilancia sulla data di
pubblicazione, né sembra fare ad Emilia una grande accoglienza, al di là delle
solite frasi di forma. In ogni caso, il 9 ottobre 1935 la Salvioni consegna il
manoscritto. L’«Almanacco della Donna Italiana», nel recensire Danaro,
aveva sì notato la modernità del soggetto e la capacità di Emilia di compiere
un’analisi accurata, ma le aveva rimproverato di non commuoversi, di non «dare
un po’ di calore alle sue pagine quando vi passa la tragedia», di non saper
«commuovere il lettore».[5] Emilia sembra aver tenuto
conto delle critiche ricevute e, nel consegnare il nuovo manoscritto a Mondadori
acclude una lettera in cui afferma, fra le altre cose:
sono
convinta che questo libro è, in certo senso, migliore dell’altro, che se ho
perduto volontariamente qualche sottigliezza ho acquistato qualche vivezza di
fantasia e di rappresentazione. Affido il destino di questa modesta opera alla
fortuna e alla sua sensibilità.
Non sono giorni
facili, quelli, dal momento che l’Italia, pochi giorni prima, è entrata in
guerra contro l’Abissinia e molti progetti editoriali devono subire
necessariamente modifiche e aggiustamenti, vista la nuova realtà. Certo è che
questa, per Mondadori, diventa subito una buona scusa per posticipare la
pubblicazione dell’opera di Emilia. Gentile, ma fermo, l’editore le scrive
di lasciar decidere a lui il momento opportuno per la stampa. La Salvioni non
obietta, pur se il tempo passa; soltanto il 1 marzo 1936, gentile e compìta,
prende il coraggio di farsi risentire:
Se
non si tratta che di attendere spero che lei non mi neghi il pregio di saper
attendere senza inutili lagnanze e non cambierò la mia linea di condotta purché,
come ella promette, io sia certa di non essere dimenticata.
Nel frattempo la
storia fa il suo corso, la guerra finisce, l’Italia ha vinto, sui “colli
fatali di Roma” è risorto l’effimero impero e nel generale trionfo
Mondadori continua a tacere. Tace anche Emilia, ma il suo silenzio si carica più
e più, ogni giorno, di angoscia. Combattuta fra la fiducia – la fiducia di
una persona perbene, che ne sa il valore – e la paura, timorosa di non
riuscire a spuntarla in un ambiente pieno di personaggi più noti di lei e che
senz’altro hanno maggiori possibilità di farsi ascoltare e rispettare,
nell’anniversario della consegna del manoscritto Emilia, con ansia e dolore,
riprende la penna per scrivere la prima lettera a Mondadori in cui, insieme ad
una sorprendente capacità di scrittura epistolare, chiara e netta, offre il
primo ritratto della sua grandezza umana:
So
benissimo che nel febbraio scorso ho preso con lei l’impegno di tacere, tacere
sempre nella fiducia di conquistarmi col silenzio il suo prezioso appoggio. Lei
in cambio avrebbe pensato a farsi vivo con me nel momento opportuno.
E
io, fedele, aspetto. I tempi, che erano davvero molto tristi, si sono un po’
rasserenati, e io zitta, per paura di disgustarla. Ho visto anche che la sua
Casa ha affrontato il rischio di pubblicare nuovi romanzi, anche di autori del
mio calibro, e non dubito che abbia avuto da compiacersi di tali atti di
coraggio. Io sempre zitta. Ma lei sa com’è quando uno tace e rimugina: gli
vengono in mente centomila dubii. E se il commendator Mondadori, con tante cose
che ha da fare, con tanta gente che gli sta attorno, con tanti pensieri che avrà
per la testa si dimenticasse di me poverina di cui nessuno gli parla, nemmeno
io? E di lì a poco: figurati, s’è bell’e dimenticato di certo.
Così
ho tirato avanti, sperando e disperando, scommettendo con me stessa e perdendo
la scommessa, finché mi son trovata nell’anniversario della consegna del mio
manoscritto. I mesi non li ho più contati, secondo le sue prescrizioni, ma gli
anni anche a non volere si sentono scoccare.
Non
so nemmeno perché le scrivo. Per ricordarle che aspetto e mi affido a lei che
non mi ha mai mancato di parola. Per raccomandarle la mia sorte, il mio lavoro,
le mie speranze. E per dirle che rimango sempre la sua devotissima Emilia
Salvioni
Zitta, fedele, ma
attenta, Emilia, che vede pubblicare autori del suo “calibro”, espressione
da intendersi non certo come presuntuosa, e che accanto a ciò capisce lo
svantaggio di non avere nessuno che possa intercedere per lei con Mondadori. Pur
limitandosi soltanto a ricordargli quella parola che le aveva dato, sente il
tempo che passa e ne esprime gli effetti con termini di una semplicità
disarmante e terribile, ma proprio per questo così efficace: «gli anni anche a
non volere si sentono scoccare»… e il tempo che passa mina ciò che per
Emilia è la vita: la sorte, il lavoro e le speranze, una trinità spirituale
dove il lavoro si colloca al centro, e che appare ancor più bella nella nudità
dolorosa con cui è esposta. In quella tragica
semplicità, senz’aggettivi, senza alcun di più, le parole si caricano di un
valore spirituale che rende vera, grande la figura di Emilia. Anche la sua
grafia chiara, la sua scrittura semplice ne tratteggiano l’immagine di una
persona che non cerca mai di essere diversa da quel che è, che non inventa mai
niente, che si porge così com’è, devota e sincera.
Mondadori, l’uomo
d’affari, risponde con toni e parole che eludono sincerità di Emilia: afferma
che la tiene presente, sì, ch’ella non dubiti, ma prima devono venire le
stampe di Badoglio e di Starace per «dare agli italiani la tangibile prova del suo
amoroso contributo ai sentimenti ed all’orgoglio di tutti». E così il tempo
continua a passare.
È ora che Emilia
sente la necessità di impostare una strategia, eppure non riesce a non essere
sincera, confessando anche i primi dubbi – più che legittimi – che le
stanno sorgendo: com’è possibile, infatti, che una grande casa editrice possa
fermare ogni pubblicazione per soli due libri, siano pur essi di due grandi
gerarchi del regime? E ancora il timore che la sua opera, invecchiando, possa
perdere quel che a lei premeva più d’ogni altra cosa: la vita, quella carica
di vita che è intrinseca all’esser nuovo non di stampa, ma di idea. È il 20
dicembre 1936, ed Emilia torna alla carica:
Lei
aveva detto: mi lasci lanciare Starace e Badoglio e poi penserò anche a lei. Il
trovarmi in compagnia di così grandi personaggi, sia pure in coda, mi faceva
soggezione solo a pensarlo e mi sembra persino inverosimile che una grande casa
editrice come la Sua non abbia qualche rotella secondaria che funzioni per i
poveri diavoli miei pari … Ma dopotutto i due libri a cui ella accennava sono
usciti … ora secondo la sua promessa verrebbe la mia volta. Ahi lassa! … lei
non ignora che i libri invecchiano in un anno anche se sono destinati a restar
giovani per secoli (non parlo del mio, si capisce…). Io prego di tanto in
tanto qualche persona autorevole di dirle una parola nell’orecchio in mio
favore ma so, dentro di me, che la più altolocata suggestione non vale per lei
quanto una frase spontanea che tocchi il suo cuore.
La frase spontanea
che poteva toccare il cuore di Mondadori è contenuta in questa lettera, ed è
una testimonianza splendida che Emilia ci lascia di sé, affermando, in quello
scritto, d’esser lì a «mettere in lettera i suoi
poveri sospiri»… espressione bellissima, che dice di un mondo, di una vita di
volontà e di impegno nell’opera della scrittura, che apre uno squarcio più
doloroso e consapevole su quelle che poco prima erano state delle paure, vere ma
ancora generiche, per la propria sorte, il proprio lavoro, le proprie speranze.
Si sta preparando il terreno ad uno scontro che vedrà il pur abile, scaltro
Mondadori trovarsi davanti ad una creatura dall’imprevista forza di un
gigante. Frettolosamente, tre giorni dopo, l’editore risponde:
ho
ancora da stampare molti altri volumi sull’epopea africana, di storia e di
politica. Quindi lasci decidere a me il tempo migliore perché il suo volume
possa vedere la luce.
Emilia comprende
sempre di più che – forse – soltanto una voce vicina all’editore potrà
aiutarla e all’inizio del 1937 un amico bolognese di lei, Patuelli, intercede
presso Giorgio Franchi, già all’epoca importante collaboratore di Mondadori,
per caldeggiare l’edizione de I nostri
anni migliori. È una bella lettera, quella di Patuelli che scrive a Franchi
con amicizia, mentre è in procinto di partire per un viaggio, e gli raccomanda
Emilia definendola «una delle poche, vere scrittrici italiane», ma
agghiacciante è una nota, scritta a mano in cima alla lettera, a matita,
probabilmente dallo stesso Franchi: «devo dirgli che non lo pubblicheremo?»; e
il perché è presto spiegato dal foglietto accluso, in cui si possono contare
le poche copie vendute di Danaro. I
giochi sono già fatti, la sorte di Emilia è segnata, Mondadori ha deciso e
resta soltanto da trovare come liquidare la questione, come mettere a tacere
quel piccolo e scomodo personaggio. È Franchi che prova ad occuparsene, con una
lettera del 22 marzo 1937, un tentativo di diplomazia epistolare che riesce ad
essere soltanto un’operazione maldestra e che provocherà l’indignazione di
Emilia, colpita non soltanto dal tradimento, ma anche dalle modalità, troppo
estranee a lei, con cui si tenta di neutralizzarla. Dopo mesi e mesi di rimandi
e lusinghe, ecco infatti che Franchi scrive:
Posso
assicurarle che il mio Amministratore Delegato ha presente il suo volume ed è
più che mai favorevolmente disposto nei suoi confronti. E’ soltanto
un’impossibilità che nasce da forza maggiore quella che gli vieta di pensare,
per ora e forse per molti mesi ancora, alla stampa del Suo libro. Io ben capisco
d’altra parte il suo legittimo desiderio e giustifico la sua impazienza così
come giustificherei – e prima di me certamente il G. U. Mondadori – se ella
pensasse di affidare ad altro editore il suo volume.
Sarebbe
ciò certamente motivo di particolare rincrescimento per la Casa Mondadori –
che la annovera fra le sue Autrici più care – ma non potrebbe che trovare
logica ed umana questa sua decisione.
Certo per credere a
una simile lettera sarebbe necessaria un’ingenuità enorme, e forse è proprio
questo che si pensa di Emilia, presso Mondadori. Ma l’inganno di una simile
ipotesi viene svelato immediatamente dalla risposta della Salvioni che, in due
distinte lettere a Mondadori e a Franchi, rivela tutta la sua determinazione,
tutta la sua lucidità di interpretazione, tutta la sua volontà di non
soccombere e la rabbia, anche, per esser giudicata così facilmente
turlupinabile, per vedere come la semplicità, l’onestà siano fraintese con
la dabbenaggine. Il 25 marzo Mondadori riceve una lettera di fuoco da Emilia,
che – con dolorosa ironia – lo mette spietatamente davanti al suo misfatto:
Illustre
e caro Commendatore,
io
veramente, finché non l’ho sentito dire quasi dalle sue labbra, non potevo
crederlo. Ma dopo la lettera del dott. Franchi non mi resta dubbio: se avessi
buon senso io ritirerei il manoscritto che le ho affidato perché le sue
ripetute promesse non hanno nessun valore. Strano! La forza maggiore che agisce
contro di me non ha agito per esempio l’anno passato contro un’autrice che
avrebbe dovuto essere alla pari con me nella sua considerazione, la signora
Liala, verso la quale la critica si ostina ad essere così impertinente. Ma
guardi un po’, commendatore, la mia condizione: se io ritiro il manoscritto,
non posso far altro che presentarmi a un’altra casa editrice (inferiore alla
sua, per forza) e mettermi in coda di chissà qual lunga fila di mediocri più
benvisti di me, mentre da lei, per grossa che lei abbia la coscienza, io sono già
abbastanza avanti. Certo, che io mi ritirassi le parrebbe comodo: ma a me, se ci
penso, non verrebbe alcun vantaggio. Bisognerebbe che lei ammettesse di avermi
(scusi la parola, fa un po’ impressione ma non è niente) di avermi tradita;
di non aver nessuna intenzione di pubblicare il mio libro né ora né mai,
malgrado le formali promesse che ho in mano. Ma questo lei non può dirlo, è
vero? E allora una volta o l’altra il libro dovrà pur essere pubblicato, e se
dev’essere pubblicato che senso c’è a aspettare proprio che sia invecchiato
e ammuffito del tutto? Per far del male a me? Bel gusto! Per risparmiare i pochi
soldi delle stampe? Via, una casa editrice come la sua! Per paura delle proteste
di altri postulanti? E il libro di Liala allora?
Faccia
come crede, commendatore carissimo, ma prima che io mi ritiri ce ne vorrà. Io
mi sono rovinata per aspettare lei, per essermi fidata di lei. Ora le macerie
delle mie illusioni le stanno fra i piedi e le staranno fra i piedi, ho paura,
per un pezzo, cioè finché non si sia trovato un altro editore impaziente di
dare alle stampe il mio libro. Tanti, tanti auguri di Buona Pasqua: è la prima
volta dacché ci conosciamo, che glieli faccio con la bocca un po’ amara, ma
sempre di cuore. Un giorno o l’altro vengo a farle visita; so che le secca ma
ci vengo lo stesso. Che cosa vuole? Incerti del suo mestiere.
“Tradimento”,
“coscienza grossa”, parole mai usate e ora scritte da Emilia con quella
stessa nudità di altre volte, che le rende ancor più terribili, cariche di
tutto il loro valore, le parole di chi davvero si sente tradito, quando il patto
di fiducia – che va ben oltre a delle “formali promesse” – si interrompe
perché una delle due parti ha peccato di disonestà: «le sue promesse non
hanno nessun valore». È questo che Emilia mette in luce, e ancora una volta
questo carteggio rivela la sua bellezza nel dimostrare come, ad un attacco
freddo, diciamo pure alla “mossa del tecnico” risponde la voce umana, la
voce di chi non si vergogna a dimostrare il dolore e la rabbia, a sciorinare ai
piedi del freddo editore “le macerie delle proprie
illusioni” perché le veda tutte, gli ingombrino il cammino, gli turbino il
sonno. È la gran forza di un incanto caduto, quella che muove Emilia che non si
lascia travolgere, nonostante sappia anche di essere in una posizione di estremo
svantaggio, forse proprio disperata, ma continua a muoversi con lucidità e
precisione, forte del suo spirito di donna tenace, leale e chiara.
Mondadori non
risponde sùbito, e lo si poteva prevedere, alla lettera di Emilia, ed ecco che
ella scrive a Franchi, il 4 aprile, per ripetere in sostanza quanto detto
all’editore, con in più, però, la possibilità di replicare punto per punto
alla lettera ricevuta da lui. Forse è vero quel che diceva Rilke, che
l’ironia non scende nel profondo delle cose, eppure ancora oggi, leggendo
quanto aveva scritto Franchi, non si può non concepire da parte una donna
intelligente e consapevole una risposta che non sia ironica; ed Emilia ora è
piena d’un’ironia sottile e terribile, che esprime, dietro il sarcasmo, un
disprezzo profondo, accanto al quale, però, non manca la verità dolorosa: quel
rifiuto, infatti, l’ha «quasi ammazzata»:
Il
consiglio di ritirare il manoscritto dev’essere buonissimo. E’ bensì, come
consiglio, un tantino lapalissiano, come chi dicesse al momento del naufragio:
buttati in acqua, tanto devi morire. Non che mi facessi grandi illusioni, ma la
conferma sua, che veniva quasi direttamente da Mondadori, mi ha quasi ammazzata.
Io non ho a disposizione grandi case editrici … ed eccomi qui a mani vuote. Ho
scritto a Mondadori il quale naturalmente non ha risposto. Anch’io al posto
suo non saprei cosa dire. Quello della ‘forza maggiore’ è un discorso
comodo, ma che presuppone in chi dovrebbe inghiottirlo, un’ignoranza così
assoluta di questioni editoriali difficile a trovare in una persona di mediocre
intelligenza.
Forse
Patuelli avrebbe potuto lasciarle per ricordo, prima di andarsene, qualche cosa
di meglio che una scrittrice da patrocinare in una causa perduta.
Queste due repliche, ardenti, dovettero spingere
Mondadori a pensare ad una risposta. Gentile, come accade a chi sa d’essere
nel torto, probabilmente (e finalmente…) anche toccato dalle espressioni di
Emilia, l’editore il 5 aprile risponde con una lettera dal tono affettuoso e
anche dal contenuto meno ambiguo: se è vero che continua a professare simpatia,
se è vero che continua ad accampare le fumose cause di “forza maggiore”
come impedimento alla pubblicazione del romanzo, è anche vero che, finalmente,
a proposito del romanzo, afferma:
Le
consiglio molto a malincuore e con vivo rincrescimento di affidare ad altro
editore.
Ma nello scrivere questa lettera il Grand’Ufficiale
compie un errore, iniziandola così:
La
sua ultima lettera, con tanti rimproveri che non merito, mi ha profondamente
addolorato.
È qui che Emilia, se comprende come sia ormai chiuso
lo scontro sulla materia editoriale, comprende altrettanto, invece, che non si
è chiusa la battaglia umana. Si rende conto non solo che il dolore di Mondadori
non esiste, ma anche che non è possibile perdonargli di non aver compreso il
suo, fors’anche d’aver interpretato le sue parole alla stregua di formule
d’abitudine, di frasi fatte, di espressioni di compiacenza. Una volta per
tutte, è necessario che l’editore conosca e capisca la verità, e il 12
aprile 1937 Emilia scrive la lettera in cui esprime, chiara e definitiva, la sua
totale identità fra vita e scrittura, affinché chi legge possa rendersi conto
di non aver soltanto “bocciato” un romanzo, ma di aver frantumato una parte
di vita. E siccome queste cose si dicono meglio di come si scrivono, Emilia
annuncia a Franchi un suo prossimo arrivo a Mondadori:
Devo
domandarle ancora un favore che sarà l’ultimo ed è per questo che lo chiedo
senza rimorso.
Le
sarei grata se potesse indicarmi un giorno e un’ora in cui mi fosse consentito
di vedere con calma il commendatore. Non domando che dieci minuti, ma dieci
minuti effettivi, non tumultuosi e ridotti
a pochi istanti in pratica, come è avvenuto per altri colloqui col G. U.
Mondadori. Non perché io voglia prolungare le recriminazioni, stia tranquillo.
Ma perché voglio spiegare la vivacità delle mie espressioni, che il suo Capo
definisce ingiuste.
Dal
tono cortese e disinvolto delle loro lettere mi accorgo infatti che nessuno di
loro si rende conto della gravità del colpo che ho subito: togliere a una
persona una parte della sua vita, tale è per me la mia attività letteraria, e
mentre quella si dibatte nella disperazione chiamare ingiusto
il suo grido di dolore, è a sua volta ingiusto.
Dopo
aver illustrato con sangue freddo questo concetto, io sparirò probabilmente per
sempre dalla scena, che è quello che si desiderava ottenere. Val la pena di
perdere a questo scopo ancora dieci minuti.
Franchi risponde a nome di Mondadori, e non senza un
tono provocatorio, alla lettera di Emilia il 17 aprile:
Sarà
gradito riceverla nella ventura settimana.
A
viva voce sarà certamente più facile motivarle il perché delle nostre lettere
che ella definisce cortesi e disinvolte.
Il colloquio fra Mondadori e Emilia avvenne sul finire
dell’aprile 1937. Dalle due lettere, le ultime due, che seguono in ordine
cronologico nella cartella della corrispondenza Salvioni alla Fondazione Arnoldo
e Alberto Mondadori, si evince che dovette essere un colloquio burrascoso, e
chissà mai cosa si dissero i due contendenti…certo è che Emilia ne uscì col
contratto editoriale. Il 20 maggio 1937 scrive l’ultima lettera all’editore:
Illustre
Commendatore,
Ho
ricevuto il contratto per l’edizione del mio nuovo libro, firmato da Lei, e la
ringrazio vivamente.
Lei
non ha risparmiato efficacia di linguaggio per farmi apprezzare il favore che
ella mi concede ma stia sicuro che anche senza di esso, io ne conoscevo la
grandezza e ne avrei provato, come ne provo, un profondo sentimento di
gratitudine.
Mi
dispiace infinitamente che, per l’ultima volta che ho la fortuna di essere in
rapporti editoriali con Lei, le nostre relazioni non possano essere quelle
cordiali di prima. Per quel che riguarda me, mi duole di esser stata indotta a
pronunciare in un momento di passione parole di cui ero pentita prima ancora di
averne misurato l’opportunità.
Che i toni siano stati forti, che le parole siano state
più o meno opportune, certamente è stata la sincerità di Emilia a vincere su
Mondadori che in quest’ultimo momento dimostra di essere il grande uomo che fa
il grande editore, s’arrabbia, ma comprende chi ha di fronte e infine cede: I
nostri anni migliori va in stampa. Emilia ringrazia, torna al suo tono
consueto di donna mite e riconoscente a tutto e a tutti, scorda i torti perché
mali della vita, ma non i dolori perché mali dell’anima, e termina la sua
corrispondenza con un’ultima lettera del 31 gennaio 1938 a Franchi in cui ella
stessa dà un ritratto di se a tutto tondo:
Il
grand’uomo aveva una gran voglia di mandarmi come dicono al mio paese “a
remengo” ma ora che è in ballo balla che è una delizia. Delizia…. beh, io
per me sono piena di rimorsi: rimorso per quella famosa sfuriata che mi ha
guadagnato tutto questo, rimorso per il mio ostinato mutismo, rimorso ahimè
d’esser troppo debole, timida, incapace per ricambiare in qualche modo la sua
attività di propaganda costringendo la gente a comprare il mio libro. … Io
sono stata molto infelice … ho sofferto come un cane.
Lui
lo sa che non tenterò mai più di avvicinarlo, che non posso e non voglio
riconquistare la sua simpatia e tantomeno abusarne. Mi basta che sappia che gli
son grata. … Prima ero nella lotta e combattevo per istinto, ora vedo, so, mi
spavento e darei la testa nel muro. È quella benedetta donna che esagera in
tutti i sensi, si capisce. Ma è sincera sempre nel male (anche troppo!) e nel
bene.
Il rapporto epistolare ed editoriale fra Mondadori ed
Emilia Salvioni si chiude così. Certo quest’ultima lettera dice molto su come
l’editore dovette acconsentire obtorto
collo alla pubblicazione, e che solo la presenza viva di Emilia dovette
muoverlo a rassegnarsi ed a fare un pessimo affare, secondo l’espressione di
Moretti. Ma, limpida e onesta, su tutto si eleva la figura di Emilia, sincera
sempre, nel male e nel bene.
I nostri anni
migliori è
un romanzo che presto viene scordato e dietro al quale certamente non ci
aspetteremmo l’esistenza di una testimonianza così sofferta, così difficile
come questo carteggio, il quale alla fine diventa come un’opera a sé, va ben
oltre l’altra opera che appassionatamente difende. L’alternanza delle veline
dattiloscritte di Mondadori e dei fogli riempiti con grafia a mano da Emilia è
un documento umano, non rivela soltanto la bella vena della Salvioni
epistolografa.
Molti anni dopo, anziana, Emilia disse di sé: «Io ero
molto fiera e piena di bellicosi propositi, rinunciai quindi alle profferte del
buono e bravo editore e volli scrivere a modo mio ch’era, credevo, un modo
indipendente e personale».[6]
Non si sa chi sia l’editore cui Emilia si riferisce, forse non è neppure una
persona precisa quanto un’immagine astratta, ma certo è che questo carteggio
con Mondadori spiega bene quella dichiarazione di tanti anni dopo: risulta alla
fine essere anche il documento di una crescita dell’indipendenza artistica,
oltre che una testimonianza morale.
Carlo Caporossi
NOTE
[1] E. Salvioni, Angeliche colline, a cura di A. Arlsan Veronese e Id., Lavorare per vivere, a cura di P. Artuso, Milano, Guerini e Associati, 2003.
2 Tutte le lettere di Emilia Salvioni ad Arnoldo Mondadori, e viceversa, qui riportate, sono conservate nell’ Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Archivio storico Arnoldo Mondadori Editore, Fondo Arnoldo Mondadori, fasc. Emilia Salvioni.
3 Marino Moretti ad Aldo Valori, 22 gennaio 1932, lettera autografa. Per gentile concessione di Amalia Corrà, nipote di Emilia Salvioni, proprietaria del manoscritto.
4 Pietro Pancrazi a Peppino Dore, 17 dicembre 1931, lettera autografa. Per gentile concessione di Amalia Corrà, nipote di Emilia Salvioni, proprietaria del manoscritto.
5 «Almanacco della Donna Italiana», a. XVI, 1935, p. 222.
6 Dichiarazione di Emilia Salvioni riportata in IV di copertina di Emilia Salvioni (1895-1968) Una scrittrice ritrovata, Pieve di Soligo 2002.
VICTORIA SURLIUGA, RICE UNIVERSITY
DA “ITALIAN BOOKSHELF” ANNALI D’ITALIANISTICA N. 22 (2004)
Emilia Salvioni (1895-1968) nasce a Bologna da genitori veneti originari di Pieve di Soligo, il paese dove poi vivrà per molti anni. Tra le prime scrittrici di professione nel panorama della letteratura italiana del ventesimo secolo, conciliò per molti anni questa attività con il lavoro di bibliotecaria presso l’Istituto giuridico di Bologna. Collaborò con diverse case editrici, quali Mondadori, Cappelli, SEI, SALES e scrisse anche molti interventi su quotidiani, da racconti brevi ed elzeviri fino a commenti più ampi.
Di questa autrice non si è ancora parlato molto, ma attorno alla sua figura si sta creando un certo consenso critico. Il suo archivio è stato donato dagli eredi al Comune di Pieve di Soligo (Treviso), che sta facendo un meritorio lavoro di informatizzazione di tutto il materiale, e ha promosso la pubblicazione, presso la casa editrice Guerini e Associati, di due volumi, rispettivamente del 1941 (Lavorare per vivere, Istituto di propaganda Libraria) e del 1968 (Angeliche colline, Rebellato).
In Lavorare per vivere Emilia Salvioni narra le vicende di due sorelle, Angelica e Maddalena Urban. Alla morte del padre, scoprono che il loro lascito si riduce a debiti e che sarà necessario, per evitare di essere mantenute a spese dei lontani parenti, “lavorare per vivere”. Questo romanzo descrive la crescita interiore delle due donne, la loro acquisizione di forza e la parallela comprensione che il loro stato borghese non è un vantaggio, ma spesso un impedimento. Nel corso del romanzo si assiste al passaggio da un mondo in cui le donne nata in una buona famiglia devono per forza legarsi a degli uomini loro pari, ad una serie di circostanze storiche per cui la dote e la nascita divengono fattori di molto minore rilievo. mentre ad Angelica Urban era stato impedito il matrimonio con Antonio Dalla Paula, alla giovane protetta di lei, Lori Ressi, non verrà infatti impedito di formalizzare il suo legame con il figlio di lui, Sergio.
Le due sorelle capiscono che il mondo sta effettivamente cambiando. La Salvioni situa la loro vicenda ad un punto di svolta. Angelica e Maddalena rappresentano la generazione passata, messa a confronto con quella della giovane Lori, per la quale sembra che si stiano aprendo maggiori opportunità di realizzazione personale. Inizialmente, Angelica e Maddalena non sanno gestire il conflitto tra gli sviluppi sociali e l’educazione che hanno ricevuto: “Sono le leggi della colpa e della vergogna”. Pur sapendo che “la vita non è una favola con la morale”, le due donne si pongono il dubbio sul tipo di mondo che si avrebbe se tutte le donne conoscessero “il segreto di Lori”, ovvero dell’emancipazione femminile.
Sulla stessa compostezza morale di Lavorare per vivere si basa la raccolta di elzeviri autobiografici, Angeliche colline. Qui vengono delineati i momenti più difficili che segnano la vita della Salvioni. Si parte dalla morte della madre, che la pone in una situazione solitaria sia all’interno della famiglia che nei confronti della società, per cui alla bambina sarebbe necessaria una protezione nelle mura domestiche. Il padre, professore universitario, si rivela invece troppo preso dai suoi studi per capire le esigenze di una bambina che sta crescendo. Lei, tuttavia, nonostante il padre non sia particolarmente attento alle sue esigenze pratiche, si sente protetta dal rapporto intellettuale che viene a crearsi con lui. Questo legame, però, sviluppato all’interno del “domestico Olimpo”, la rende diversa dagli altri bambini e incapace quindi di avere un dialogo o di poter giocare con loro. La sensazione di alienazione di Emilia inizia durante gli anni dell’infanzia: ”Quando, diventata grande, ho voluto mescolarmi ai giuochi degli adulti, mi sono accorta che anch’essi mi accoglievano nei loro gruppi soltanto in apparenza. Ho finito quasi sempre col tirarmi da parte e restarmene sola”.
Il limite della Salvioni, o per meglio dire del personaggio di se stessa da lei proiettato nei suoi scritti, sta nel non riuscire a superare un certo cupo buonismo, unito all’eterno “problema esistenziale” della scarsa stima di sè. Per quanto cresciuta in un ambiente familiare liberale, culturalmente illuminato, la Salvioni ne mette bene in evidenza i pregiudizi borghesi, come ad esempio quelli del padre e della sorella nei confronti della condizione sociale inferiore del padrino di Emilia. La Salvioni ricorda gli zuccherini che questi era solito regalarle: “un ricordo dolce della sua botà e della sua umiltà, di cui i miei occhi innocenti avevano scoperto il valore prezioso nell’anima dell’uomo di nessun conto”. Se questo esempio mette in luce una certa condiscendenza non risolta, in un esempio successivo la Salvioni riesce a crearsi ulteriori problemi riguardo allo sviluppo della sua stima di sè. In “La scuola”, descrive come da piccola venisse considerata geniale per il fatto di essere già in grado di leggere e scrivere durante la scuola preparatoria. gradualmente, dopo il primo anno delle elementari, la piccola Emilia scopre che le cose non sarebbero continuate con la stessa facilità, concludendo: “Le vicende della mia vita, fra glia lati e bassi, furono tali, che non riuscii mai più a riconquistare l’alto concetto di me che avevo posseduto tra i tre e i sei anni”. Una simile osservazione si trova anche ne “La vela”, dove un ragazzo che conduce una barca a vela osserva: “Pare impossibile, come la signorina monta in una barca, così cade il vento”. Alla sua battutta, la Salvioni annuisce, ma la trasforma subito, pensando ad “alcune navi metaforiche, sulle quali ero salita con ardore ed entusiasmo, a prezzo di sacrifici, durante gli anni, e sempre avevo visto cadere il vento”.
La modernità della Salvioni, nel riportare questi
episodi, sta nel non generalizzarli alla condizione femminile bensì nel tenerli
legati alla propria esperienza autobiografica. E’ proprio perchè si astiene
dal parlare a nome delle donne che la Salvioni può parlare come “una
donna”, per citare il titolo dell’autobiografia di Sibilla Aleramo. In lei
si sente la forza redentrice di una scrittura in cui l’intelligenza narrativa
fa superare la frustrazione di non aver compiuto, nella vita, esattamente quanto
si sarebbe auspicato.
IL
GAZZETTINO DI TREVISO
DOMENICA,
7 MARZO 2004
Alla professoressa Antonia Arslan,
dell’Università, va riconosciuto il merito di far riemergere dalla
“galassia sommersa” scrittrici di spessore, inspiegabilmente dimenticate.
E’ il caso di Emilia Salvioni
/1895-1968) di origini venete-visse tra Bologna e Pieve di Soligo- autrice di
romanzi ,racconti, biografie, libri per ragazzi.
Nell’introduzione
ad una delle opere ora riproposte, “Angeliche colline” (Edizioni Angelo
Guerini e associati), una raccolta di elzeviri che la Salvioni pubblicò sul
“Resto del Carlino” e sull’”Osservatore Romano”, Antonia Arslan parla
con entusiasmo di “una scrittrice-e una donna- tutta da riscoprire.
Una
personalità che nasconde dietro squisite maniere e un garbo d’altri tempi,
una tempra d’acciaio e la capacità di dar voce ad alcuni dei personaggi
femminili più intriganti della letteratura del Novecento veneto”.
Nel
libro la Salvioni ridisegna, con scrittura sciolta ed efficace, venata di
ironia, momenti, riti, figure legate alla sua infanzia di bambina orfana di
madre,triste e sola: “Non si era mai sentita così spietatamente l’assenza
di chi potesse occuparsi di noi (aveva una sorellina) con intelletto
d’amore”.
Si
rifugia nella lettura:”E venne il giorno in cui un libro non fu più per me un
deposito di parole, ma un mondo, un paese inesplorato, una vita di creature, il
più grande e stupendo di tutti i giocattoli”.
Del
resto “i libri costituivano tutto ciò che mi mancava: una mamma, compagni
della mia età, giuochi e risate, corse all’aria aperta”.
Attraverso
pagine intense fissa immagini rimaste indelebili nella sua mente: i bambini che
la tenevano in disparte, i suoi viaggi solitari di “esplorazione”, il
fringuello accecato perché cantasse meglio, l’asino “bizzarro”, il rito
del bucato, dei “cavalieri”, della vendemmia.
Non
dimentica l’odore del mosto e delle arance, “simbolo” del teatro che
frequentava da piccola.
E
figure, come quella del padre, professore all’università di Bologna, che
“usava applicare le grandi teorie sociali ai piccoli eventi della vita
quotidiana”, del padrino che le portava gli zuccherini, della contessa che
anche se spogliata di tutti i beni,manteneva la sua dignità.
Un
monda lontano, del quale molti lettori possono riconoscersi protagonisti.
Maria
Pia Codato
IL
GAZZETTINO DI TREVISO
SABATO, 28 FEBBRAIO 2004
ANGELICHE
COLLINE DI EMILIA….
Emilia
Salvioni (1895-1968) è stata una delle maggiori rappresentanti della
letteratura femminile del ‘900.
Una
donna e una intellettuale tutta da scoprire, figlia di una famiglia aperta al
mondo, con solide basi nel Trevigiano, e che le ha offerto la possibilità di
vivere con grande aderenza i movimenti letterali e sociali che hanno innervato
il Novecento.
Ed
è merito di Antonia Arslan se oggi abbiamo la possibilità di riscoprire
quest’autrice.
Nel
libro Salvioni racconta un’Italia che sicuramente non c’è più, ma che
offre buoni sentimenti e seduce il lettore.
Piccole,
sensibili e colorate pennellate per raccontare il mondo che vuole mantenere le
proprie tradizioni.
L’AZIONE
12/10/2003
LE
ANGELICHE COLLINE DELLA SALVIONI
Così
Antonia Arslan ha definito Emilia Salvioni, ponendola alla pari di Giovanni
Com’isso, Guido Piovene, Manara Valgimigli e Concetto Marchesi.
L’abbiamo
conosciuta solo da poco, poiché la sua scrittura, come quella di altre autrici
dell’Ottocento e del Novecento,
appartiene a quella “galassia sommersa” nella quale vivono, da sconosciute,
romanziere, giornaliste, novellatrici e apprendiciste; donne snobbate dalla
critica, quindi dall’editoria e mai entrate nell’orbita della notorietà
letteraria.
Eppure
a leggerla si ha subito la percezione di essere di fronte ad una scrittrice di
talento, che sa osservare il mondo e trasporne gli elementi in pagine alte,
deliziosamente accattivanti.
Grazie
all’assessorato alla cultura di Pieve di Soligo e a sponsor privati, Emilia
Salvioni, per metà pievigina, per metà bolognese, si affaccia ora,a
trentacinque anni dalla morte, sul palcoscenico librario e con le due opere
fresche di stampa –Angeliche colline Lavorare per vivere- ci appare sotto le
luci della ribalta con una bravura incontestabile e con quella tipica
caratteristica dello scrittore veneto che sa cogliere anche nelle minute cose in
apparenti della natura e degli uomini lo spunto per trattare delle grandi cose
della vita.
“La
vita di campagna e quella di città- annota la Arslan- sono dovunque descritte
con minuziosa, affettuosa attenzione, ma senza traccia di retorica, di
pittoresco convenzionale o di colore locale; piuttosto appare evidente che il
tema unificante dell’intera raccolta riflette quella disposizione profonda
dell’anima veneta a raccontare con gusto disteso e giusta misura, a sondare i
caratteri strambi e ritrosi, gli umili affetti, la vita semplice, la cultura
vissuta come intimo abito mentale”.
Emilia
Salvioni li scriveva per narrare ciò che di solenne e di minimo le stava
intorno e per dare ai suoi lettori, attraverso una severa analisi introspettiva,
il senso della gioia e della fatica dell’esistere.
Elvira
Fantin
IL GAZZETTINO DI TREVISO
VENERDI’,
26 SETTEMBRE 2003
LE
DUE GRANDI DONNE DI PIEVE
Appuntamenti
stasera in auditorium e domani al “Fabbri”
Emilia
Salvioni (1895-1968) e Marta Sammartini (1900-1954): queste due figure femminili
di grande rilievo nate nello stesso periodo, amiche tra loro e profondamente
legate a Pieve, capaci di una presenza attiva e di un contributo originale nella
vita culturale della comunità pievigina caratterizzano altrettanti appuntamenti
culturali di prestigio in programma a Pieve di Soligo oggi e domani.
Sono
due personaggi che arrivano sino a noi con un messaggio molto attuale di
promozione e di valorizzazione del ruolo femminile nella società ha osservato
l’assessore alla cultura, Pierangelo Gobbato, illustrando le iniziative
promosse dall’amministrazione comunale.
Due
opere di Emilia Salvioni di nuovo in libreria: è questo il titolo della serata
dedicata alla famosa scrittrice pievigina per la quale si è costituito un
Archivio in Biblioteca, che si terrà nel nuovo auditorium venerdì 26
Settembre, alle ore 20.30.
Con
interventi di Atonia Arslan, Carlo Caporossi, Patrizia Artuso, Federica
Benedetti e Maria Feltrano sarà presentata la riedizione dei volumi
“Angeliche colline e “Lavorare per vivere” scritti dalla Salvioni.
Quindi,
domani, sabato, alle 16.30, nelle sale espositive del Centro di cultura
F.Fabbri-Villa Brandolini di Solighetto sarà inaugurata la mostra Sculture
dedicata a Marta Sammartini.
Introdurrà
l’evento il professor Nico Stringa, curatore della monografia Marta Sammartini
sulle opere dell’artista(edizioni elzeviro).
Talento
precocissimo, donna di grande sensibilità e di profonda e vasta cultura, con le
sue opere di Marta Sammartini partecipò a numerose esposizioni e più volte
alla Biennale di Venezia.
Proprio
in questa città lavorò molto, ma il suo studio preferito rimase quello di
Pieve.
La
mostra rimarrà aperta sino al 26 Ottobre.
Marco
Zabotti
EMILIA SALVIONI:
UNA SCRITTRICE DA RISCOPRIRE
di
Patrizia Artuso
da "Il
Flaminio cultura. Rivista di studi della Comunità Montana delle Prealpi
Trevigiane",
n. 14 aprile 2003, Godega di Sant'Urbano (TV), 2003
Questo breve saggio ha lo scopo di portare all’attenzione dei lettori
l’opera di una scrittrice bolognese che la critica e il pubblico hanno troppo presto e, a mio parere,
ingiustamente dimenticato.
L’attività letteraria di Emilia Salvioni si svolse in un arco di tempo
piuttosto ampio: dal 1922, anno della pubblicazione del suo primo romanzo,
continuò ininterrottamente a pubblicare romanzi, novelle e articoli su numerosi
quotidiani e riviste. In oltre quarant’anni di intensa attività letteraria la
Salvioni diede alle stampe una ventina di romanzi per adulti e quasi altrettante
opere per ragazzi. Diversi romanzi riscuoterono un discreto successo di pubblico
e qualificati consensi da parte della critica e alcune opere ottennero premi
letterari o segnalazioni significative, come “Danaro”, “Lavorare per
vivere” (premiato al concorso La Scuola Italiana Moderna), “Intanto
Erminia…” (premio Manzoni).
Nacque a Bologna il 2 aprile 1895.
La madre, Rosa Schiatti, morì precocemente quando Emilia aveva solo due
anni e la sua assenza fu all’origine del senso di malinconia e di solitudine
che accompagnarono la scrittrice per tutta la vita.
Imparò la legge a soli tre anni su un libro delle avventure di Pinocchio,
quando la sorella e una cugina l’avevano scelta come allieva per giocare alle
maestre. Da allora i libri furono i compagni di gioco e il rifugio di una
bambina di indole timida e introversa, ma dotata di una spiccata e vivacissima
fantasia.
La famiglia della madre, appartenente alla media borghesia veneta, era
originaria di Pieve di Soligo: qui il nonno materno, Antonio Schiratti, aveva
una farmacia, dei cui scaffali polverosi e della curiosità che provava per essi
da bambina, la scrittrice conservò un commosso ricordo.
Lo Schiatti, per lungo tempo sindaco di Pieve di Soligo, era un uomo di
idee liberali e progressiste e la sua farmacia,secondo la consuetudine
ottocentesca, era divenuta un luogo di ritrovo e di animate discussioni
politiche e culturali.
“E non erano solo chiacchiere di farmacia (…) il nonno credeva
nel progresso, cioè nella provvidenza di Dio e nella buona volontà degli
uomini.”
Il padre, Giovanni Battista Salvioni, era docente di Statistica
all’Università di Bologna. Il suo interesse per questa materia estremamente
tecnica non contrastava però con il suo carattere gioviale: amava la
letteratura, in particolar modo la poesia ed egli stesso scriveva versi.
Nell’ultimo periodo della
sua vita si dedicò alla poesia dantesca, di cui era un profondo conoscitore; e
quando la cecità gli impedì di leggere personalmente, le due figlie leggevano
per lui.
La figura paterna fu molto importante nella vita della scrittrice.
Dal padre, insieme all’amore per lo studio, derivò quello stesso
umorismo sottile che emerge in molti suoi racconti, velato spesso da una tenue
ironia.
Una sorella della madre, Maria Schiratti, aveva sposato Giuseppe Toniolo,
uno dei più grandi rappresentanti del pensiero cattolico-sociale del tempo.
L’educazione della giovane Emilia fu improntata a solidi principi
morali, in un ambiente profondamente cattolico.
Le dolorose esperienze della sua vita le diedero un senso di amarezza e di
frustrazione, mitigato però dalla sua profonda fede. Tuttavia va detto che la
fede non fu solo il frutto dell’educazione che ricevette: fu qualcosa di
maturato e cosciente che non le impedì una lucida visione della vita e delle
sue difficoltà.
Forse l’attenzione ai problemi sociali che emerge nelle sue opere si può
mettere in connessione con l’ambiente in cui visse , ma, più probabilmente,
tale interesse derivava dalla sua stessa sensibilità e dal profondo senso di
giustizia e di umanità che la portava a guardare, aldilà degli schemi della
società in cui viveva, al valore profondo della persona umana.
Cominciò a scrivere molto presto, versi, novelle e romanzi.
Nel 1940, in un’intervista pubblicata su “Parola e Libro” la
scrittrice disse di se stessa:
“Mi sembra di essere nata con l’idea di diventare scrittrice;
certo non dovevo avere più di otto anni quando proposi a mio padre uno
pseudonimo che avrei portato da grande, in veste di letterata”.
Dal 1923 circa fino al 1958 collaborò a “L’avvenire
d’Italia” sulle cui pagine pubblicò in appendiceli primo romanzo “Prima
che ritorni li sole” e il secondo “Quella che aspettavo sei tu”, ambedue
con lo pseudonimo di Marina Vallari.
Dopo la prima guerra mondiale e la morte del padre, la necessità di fonti
di guadagno sicure la spinsero a pensare di partire per l’Inghilterra dove
trovare lavoro come istitutrice, poiché non aveva titoli di studio validi per
esercitare l’insegnamento in Italia, ma fu dissuasa dalla sorella.
Per interessamento dei colleghi del padre all’università di Bologna, le
fu offerto l’incarico di dirigere la biblioteca dell’Istituto Giuridico.
Negli Anni Venti cominciò a dedicarsi alla letteratura per ragazzi,
pubblicando racconti e poesie su “Il corrierino”, settimanali per bambini
edito a Milano dalla Casa Editrice Cardinal Ferrari.
Nel 1926 pubblicò il primo romanzo per ragazzi “Marialù e i suoi
amici” e nel 1927 “Oreste Grantesta
burattinaio”.
La Salvioni si dedicò alla letteratura per ragazzi e per l’infanzia con
grande impegno e profonda serietà; alcune delle sue opere, in particolare
“Bambini cattivi”, “La squadra dello Scoiattolo” e “Cioccolato
Caramelle”, rivelano nella scrittrice una reale capacità di parlare ai
ragazzi con il linguaggio più adatto a loro, in modo da coinvolgerli e
trascinarli in un divertimento che non è mai fine a se stesso, ma che è sempre
accompagnato da un fine educativo.
Nel 1934 pubblicò il romanzo “Danaro” che fu segnalato nel concorso
bandito all’Accademia Mondatori e nel 1937 “I nostri anni migliori”, opere
con le quali riscosse un discreto successo.
Collaborò periodicamente a varie riviste tra cui: “Il Solco”,
“Rassegna Nazionale”, “Fiamma Viva”
pubblicò articoli su diversi quotidiani come “L’osservatorio
Romano”, “L’Italia”, “Il Popolo”.
La vastissima produzione giornalistica della Salvioni si rivela molto
interessante, sia per l’eterogeneità degli argomenti trattati- la quale
peraltro rivela la molteplicità degli interessi della scrittrice che spaziano
dalla storia alla critica letteraria o artistica- sia per il taglio vivace e
sobriamente elegante con cui la Salvioni sa costruire i suoi articoli.
Alcuni di essi, a sfondo autobiografico, sono particolarmente interessanti
non soltanto per la suggestiva atmosfera, lievemente malinconica, da cui sono
pervasi, ma anche e soprattutto perché contribuiscono a far luce sulla
personalità della scrittrice.
Pubblicò racconti e novelle su varie riviste, ma in particolare su
“Alba” a cui collaborò con una certa regolarità nel periodo che va
approssimativamente dal 1944 all’inizio degli anni Sessanta.
Generalmente si tratta di novelle relativamente brevi in cui compaiono
pochi personaggi.
Alcuni motivi si ripetono con una certa frequenza: personaggi e situazioni
presentano poche varianti, aspetto che rivela indubbiamente la necessità da
parte della scrittrice di attenersi a schemi prestabiliti entro i quali far
muovere i suoi personaggi. Alcuni di essi tuttavia sono delineati in modo
particolarmente efficace: ben riuscita è la figura del padre nella novella
“Berretto rosso” del 1950, il quale prova un affetto così geloso ed
esclusivo per la figlia da non accorgersi , come spesso accade, che gli anni
sono passati e che la sua bambina desidera ora mettere da parte il vecchio
berretto rosso, simbolo di un’infanzia gioiosa, ma ormai passata, per
indossare un cappellino alla moda.
Un indubbio pregio della produzione di novelle va rivelato inoltre nella
scioltezza dello stile, la cui fluidità è accentuata spesso dalla necessità
di tralasciare, per ragioni pratiche di spazio,le divagazioni che, anche se
eleganti, talvolta possono appesantire lo stile di alcuni romanzi.
Un discorso a parte va fatto a proposito di “Angeliche Colline”
pubblicato postumo nel 1968 dalla casa editrice Rebellato. Si tratta di una
raccolta di elzeviri pubblicati, salvo qualche eccezione, su “L’avvenire
d’Italia” fra il 1928 e il 1939.
Il filo conduttore che unisce i vari racconti è quello del ricordo: la
Salvioni rievoca infatti episodi, usi e modi di vivere propri di un passato
ancor vivo nella sua memoria.
In un articolo pubblicato su “Il Resto del Carlino” nel 1969, ad un
anno di distanza dalla morte della scrittrice, Gaetano Arcangeli rilevò la
forza, il colore e l’eleganza del brano che apre la raccolta, dal titolo “Il
bucato”:
“Qui la vicenda del bucato nelle case di campagna di un tempo si
risolve (…) in una rappresentazione epico-paesistica di tale estro e colore (
ma di un colore vero, non arbitrario ed effettistico) d sopportare la più
sicura ed illustre delle firme”.
E richiamandosi al giudizio della giuria che assegnò a “Intanto
Erminia…” il premio Manzoni, rilevandone lo stile asciutto, “grigio” e
pacato, aggiunse:
“E chi potrebbe più riconoscere quel grigio e quella pacatezza,
nel colore e nella forza di improvviso che ci investono, come una folata di quei
venti, di quelle piogge e di quelle atmosfere mosse e mutevoli, dalla scena e
dal ritmo di questo straordinario ‘Bucato’?.
I racconti in cui la Salvioni rievoca momenti della sua infanzia
sono particolarmente suggestivi: molto bello è “Le bambole”, in cui
richiama alla memoria i suoi giochi infantili ed il senso di vuoto e di freddo
che le dava la bambola che veniva custodita gelosamente in un cassetto, “la
bambola morta”, quella per la quale la madre aveva cucito un vestito,
compiendo così uno dei suoi ultimi lavori. In questi racconti compaiono la
figura del padre, della governante Erminia, del nonno materno e di personaggi
legati a momenti dell’infanzia, visti con gli occhi commossi di chi si rivolge
al passato con rimpianto, ma senza che questo sentimento tolga nitidezza e forza
espressiva alla rappresentazione.
Qua e là affiora quel sottile umorismo che caratterizza la Salvioni:
molto arguto e vivace è il brano “L’asino” in cui, rievocando gli
avventurosi viaggi in calesse con il padre, ella controbatte con fine ironia
l’opinione comune secondo la quale l’asino è un animale mite e paziente,
dipingendolo invece come caparbio, ostinato e dotato di una subdola astuzia.
Senza dubbio “Angeliche colline”, oltre a rivelarsi un’opera
preziosa poiché contribuisce più di ogni altro scritto ad illuminare la
personalità dell’autrice, ci offre alcune tra le sue pagine più belle e
poetiche.
Continuò a dedicarsi alla narrativa e all’attività giornalistica fino
all’anno della morte che avvenne a Bologna il 14 giugno 1968.
L’ampiezza e l’eterogeneità della produzione letteraria della
Salvioni non permette in questa sede un esame completo della sua opera. Ritengo
opportuno perciò soffermarmi più approfonditamente sui romanzi.
Non tutti hanno il medesimo valore: la scrittrice stessa era consapevole
dei limiti delle sue opere, in particolare i primi due romanzi, ma altri, come
“Lavorare per vivere”, “I nostri anni migliori”, “Romanzo di
un’osteria” e in particolare “Intanto Erminia…” sono opere di grande
rilievo.
La prosa della Salvioni colpisce innanzi tutto per la capacità
descrittiva che la scrittrice rivela nel delineare i personaggi, per la vivacità
e la finezza psicologica con cui essi vengono tratteggiati: non soltanto i
protagonisti dei romanzi, la cui caratterizzazione trova ampio spazio
nell’opera, ma anche, sorprendentemente, i personaggi minori, di contorno,
che, da semplici comparse, si stagliano invece vivissimi nello spazio di poche
righe.
Sono piccoli particolari del loro modo di vestire o di parlare, un
intercalare frequente, il modo di muoversi, a disegnarli in modo così nitido da
imprimerli nella memoria del lettore.
Molto suggestiva è la rievocazione del mondo contadino, gli usi
e i costumi di un tempo passato di cui la scrittrice era stata testimone
nell’infanzia, quando trascorreva le vacanze nella casa di Pieve di Soligo.
Un mondo che non viene mai idealizzato nel ricordo, ma rappresentato nei
suoi aspetti più comuni, una vita scandita dal lavoro stagionale nei campi,
dalle feste religiose.
Il mondo rurale viene descritto in modo concreto, non retorico o
stereotipato, nonostante, soprattutto nelle descrizioni dei paesaggi in
“Lavorare per vivere” o in “Romanzo di un’osteria”, traspaia il
profondo amore della scrittrice per la campagna. Un amore che si sente ogni
volta che la Salvioni si sofferma su un particolare, apparentemente casuale, di
una pianta o del cielo, così diverso nelle varie stagioni dell’anno.
Particolarmente belle sono le descrizioni degli interni, non solo le case
dei contadini, ma anche i salotti delle famiglie della piccola borghesia,
modesti, ma con qualche velleità di eleganza,
e gli ambienti più raffinati.
Questo rivela a mio parere un fine ed acuto spirito di osservazione ed una
notevole capacità di calarsi-e far calare il lettore- nel mondo che ricrea
nelle sue pagine.
A volte leggendo non solo romanzi di ampio respiro, ma anche brevi
novelle, si ha l’impressione di essere accompagnati all’interno delle
stanze, nei luoghi dove vivono i personaggi: si apre così la porta delle ampie
cucine delle case di campagna con il focolare acceso e si possono sentire gli
odori dei cibi che vengono preparati o ci si può sedere nel salotto buono,
accanto alle signore in visita la domenica.
La scrittrice sa dipingere la vita di paese, con le sue consuetudini e
suoi rituali, in modo esemplare:
“Di rado le signore perdevano l’occasione di accompagnare il
marito in timonella quando egli andava con quel mezzo per i suoi affari.
Mentre l’uomo accudiva a questi, la signora faceva un giro di visite.
A cominciare dalle otto della mattina si riceveva nei tinelli nitidi e
ordinati, continuando a sferruzzare.
Quel giro era lunghetto, perché il buon gusto imponeva di non trascurar
nessuno e la borghesia paesana era rappresentata da un bel numero di
famiglie.”
L’abilità della Salvioni
nel ricreare l’atmosfera dei borghi di campagna e il realismo con cui ne
coglie lo spirito furono rilevati da Stefano Nemo in un articolo pubblicato nel
1941 su “Il Popolo del Friuli”, dove “Lavorare per vivere” fu avvicinato
a “Piccolo mondo antico” del Fogazzaro per la vivacità della pittura di
ambiente e la fedeltà della rievocazione della vita paesana di fine Ottocento.
Certe descrizioni di interni reggono il confronto con la vivacità di
alcune pagine del Nievo, basti pensare all’animazione della cucina della
santola Catina, nel giorno della sagra:
“Un contadino e un ometto di quel ceto che, nel gergo locale,
veniva definito una ‘mezza velada’grattavano metodicamente il parmigiano.
Un vecchio intento agli spiedi raccoglieva con gesti rituali i sughi nelle
leccarde e li spargeva sui polli giovani e sugli uccellini che, ad ogni giro, piegavano tutti insieme le testoline appuntite.
Lì dentro c’era più allegria che in tutta la sagra e più fervore che
in un campo di battaglia, benché mancasse un’ora e mezza al desinare”
Nella descrizione degli ambienti cittadini la Salvioni mostra un
prediligere il mondo della piccola e media borghesia, ricco di
tradizioni,pregiudizi e diffidenze e sa dipingere con grande efficacia la vita
di provincia, abitudinaria e monotona.
Il romanzo “Pietro Ventura”, del 1938, è ambientato a Bologna, la
città dove la scrittrice trascorse gran parte della sua vita e in quella stessa
città è ambientato, nella pria parte, anche “Intanto Erminia…£ dove, nel
rievocare l’infanzia e la giovinezza della protagonista, la Salvioni si
sofferma a descrivere i portoci e le vie strette del centro, piene di animazione
nei giorni di festa:
“La sonnolenta monotonia dei giorni laboriosi era interrotta di
frequente dalle feste cittadine.(…) In quei giorni di calura assolata, le
strade, di solito imbronciate e taciturne, si abbandonavano a un’estasi di
giubilo. Fra i porticati freschi di nuovo intonaco, con i pianciti tirati a
lucido, con le piante verdi ad ogni arcata, sventolavano sul turchino fondo del
cielo, i ‘zendali’ a festoni bianchi, rossi, turchini, gialli.(…)Erano
sagre parrocchiali in cui i cittadini amavano spiegare tutta la magnificenza di
cui eran capaci e duravano fino a notte.
S’improvvisavano caffè all’aperto, in vicinanza del palco, dove la
banda suonava i ‘pot-pourri’ del Barbiere e della Sonnambula, ed Erminia
sedeva compostamente fra i genitori ad un tavolo.
Il cameriere le portava un sorbetto da un baiocco e il sonno l’aggravava
a poco a poco, in mezzo al frastuono.
Nel descrivere gli interni la Salvioni si mostra molto accurata e
meticolosa: quasi sempre, nella evoluzione della vicenda, apre delle parentesi
descrittive che rivelano in lei il gusti e la cura del particolare. Molto spesso
la collocazione spaziale del personaggio è significativa per conoscere il suo
mondo interiore,la sua psicologia.
La casa di Ginevra ad esempio, nel romanzo “Pietro Ventura”, con il
suo lusso raffinato, ma insieme esagerato e pomposo, rivela non tanto il gusto
per gli oggetti preziosi ed eleganti, quanto l’esigenza di ostentare la
propria ricchezza, anche al punto di trasformare la casa in una fredda ed
anonima esposizione di ricchissimi oggetti dagli stili più svariati:
“Ginevra aveva frugato i magazzini degli antiquari più in voga,
aveva voluto ‘tutto autentico’.
I mobili bolognesi del seicento che aveva scelto per la sua stanza da
pranzo erano allora una rarità. Aveva trovato specchiere e placche veneziane
per il salotto e quadri di varie scuole, tutti mediocri, ma con cornici costose.
C’erano parecchie nature morte, una scena sacra e due o tre ritratti, tra cui
quello di un cardinale. Per prudenza Ginevra non aveva messo i ritratti troppo
in vista. Ma in vista erano i cassoni di nozze scolpiti e certi maestosi
seggioloni e scrigni di pregio. Tutti, per quanto disposti con arte, stavano lì
impettiti e sdegnosi, non si fondevano con la vita di chi li adoperava. Fossero
o no pezzi da museo, avevano
l’aspetto superboe freddo degli oggetti esposto in un museo.”
E la casa di Ginevra è solo un esempio che potrebbe essere seguito
da una lunghissima serie: questa precisione di particolari rivela nella Salvioni
la chiara esigenza di collocare i suoi personaggi in uno spazio ‘reale’,
concreto, di dare ad ognuno di essi un palcoscenico
e lo scenario giusto in cui muoversi indica indubbiamente l’accuratezza
di chi non lascia al caso nessun particolare.
Molto efficaci sono le descrizioni degli interni delle case signorili, che
rispecchiano il modo di essere e di vivere dei personaggi e il gusto di
un’epoca.
Nel romanzo “Gli amanti veneziani” del 1949 la Salvioni descrive il
palazzo nobiliare di una delle protagoniste, Caterina Franzoia, “di buona
architettura e ammobiliato lussuosamente”, ma con una sobrietà che rivela una
solidità economica basata anche sulla moderazione e sulla parsimonia.
Ben diverso è il lusso dell’abitazione di Marianna, un’altra delle
protagoniste del romanzo, piena di tendaggi, di vasi di ceramica, di tappeti e
di oggetti orientali, doni di altrettanti danarosi amanti.
Due mondi opposti a confronto-quello dell’ordine e della solidità da
una parte, quello del fascino della precarietà dall’altra- vengono
rappresentati agli occhi del lettore anche attraverso l’arredamento delle case
dei protagonisti: il luogo in cui essi vivono diviene così efficacemente
l’estrinsecazione del loro mondo interiore.
Con la medesima accuratezza la Salvioni dipinge anche gli ambienti dove i
suoi personaggi lavorano; nel romanza “Carlotta Varzi”, ad esempio, troviamo
la descrizione della drogheria dei Rivolta, buia e tetra, con i suoi scaffali
disordinati e polverosi. Conosciamo gli uffici della sua azienda, la “Carlotta
Varzi S.A.”, che con il loro ordine meticoloso rispecchiano l’efficienza,
l’impegno e l’abilità con cui Carlotta sa farsi strada nel mondo degli
affari.
Ne “I nostri anni migliori” incontriamo Lucia che lavora come
impiegata in un ufficio, immersa nel mare di lettere che deve scrivere a
macchina, intenta a rispondere al telefono e travolta dalla montagna di pratiche
che deve sbrigare.
Con le sorelle Urban, protagoniste di “Lavorare per vivere” entriamo
nella scuola di un piccolo borgo di campagna dove i bambini arrivano sino alla
terza classe con fatica e raramente finiscono il corso elementare. Una delle
due, Maddalena, viene assegnata ad una scuola lontana dal paese, quasi sperduta
in mezzo alle colline e si deve occupare in prima persona di rimettere in sesto
lo stesso edificio scolastico, lasciato fino a quel momento in balia delle
intemperie. Sono descrizioni di sorprendente precisione:
“Nell’edificio, ch’era stato un umile fabbricato rurale,
c’era un’aula sola, con le mura rozzamente intonacate, imbiancate alla
meglio molti anni addietro, con le travi del tetto addobbate di ragnatele. In
una stanzuccia accanto, cucina e camera da letto, viveva la custode, una vedova
poverissima. Mancava la stufa per l’inverno, i banchi erano insufficienti, la
lavagna spezzata, gli scolari avevano quasi tutti i pidocchi. Quando Maddalena
era arrivata, il vento di autunno, umido e irrequieto, soffiava attraverso i
vetri rotti dell’impannate.”
Alcuni temi ricorrenti in questi romanzi, quello della rinuncia, del
sacrificio, della fedeltà al dovere, lungi dall’indurre nel lettore una
sensazione di ripetitività e di monotonia, rispecchiano fedelmente il mondo
interiore della scrittrice e giocano la loro plausibilità su un sottile
intreccio di sfumature e di minime variazioni nel porsi dei personaggi di
fronte alla realtà con cui si misurano.
La fede cattolica è senza dubbio un dato che non va dimenticato, se
rivuole comprendere pienamente l’opera e la personalità della Salvioni: una
fede sincera e profonda che si traduce in forza ed in fiducia nel valore della
vita; ma è necessario prima di tutto evitare, nell’analizzare la sua
produzione letteraria, di attribuirle una visione della realtà falsata da
apriorismi ideologici: ella stessa si definì “una scrittrice cattolica”,
non volendo certo condizionare la valutazione della sua opera. La fede che la
Salvioni trasmise ad alcuni dei suoi più riusciti personaggi non era uno
schermo che le impedisse di vedere lucidamente e con occhio disincantato la
vita, altrimenti non avrebbe potuto rappresentare ed esplorare in alcuni suoi
personaggi proprio l’ipocrisia di chi concepisce la religione come pubblica
esteriorità.
Fra i temi più cari della scrittrice vi è, in primo luogo, il
contrasto fra ricchezza e povertà. Molti dei personaggi della Salvioni lottano
duramente per vivere e devono affrontare grandi difficoltà: le sorelle Urban in
“ Lavorare per vivere”, Stella, protagonista di “Romanzo di
un’osteria”, Alba in “Una storia d’amore”.
Ad accomunare questi personaggi è la grande forza d’animo con cui si
affrontano i momenti difficili, anche la povertà: alcuni di essi-le sorelle
Urban ad esempio- devono adattarsi ad una nuova condizione benché fossero
abituati ad un discreto tenore di vita.
Questi personaggi non si mostrano mai passivi: prendono in mano le redini
della loro vita e lottano , spesso contro i pregiudizi e lo scetticismo delle
persone che li circondano.
Angelica e Maddalena Urban non prendono neppure in considerazione
l’ipotesi di ritirarsi a vivere nella casa dei parenti dove ‘una scodella de
risi’ non sarebbe mai mancata per loro e scelgono di lavorare. Carlotta Varzi,
protagonista dell’omonimo romanzo, rimasta vedova, dirige l’azienda del
marito e la fa prosperare dimostrando un’energia e un’abilità negli affari
non comuni.
Stella in “Romanzo di un’osteria”, con i suoi sacrifici e la sua
tenacia, riesce a conquistare una discreta agiatezza. La stessa Erminia, a cui
è dedicato il romanzo più bello della Salvioni, apparentemente in balia degli
eventi e rassegnata, non accetta di vivere di elemosina, ma trova un posto come
governante.
Sull’altro versante, chi non ha conosciuto il sacrificio e la povertà a
volte accompagna all’agiatezza un’aridità di sentimenti o un’esagerata
avidità di denaro. Alcuni personaggi sono spinti da un’irragionevole avarizia
fino alla grettezza o sono caratterizzati da una totale mancanza di parsimonia,
tanto da sperperare il loro patrimonio al tavolo da gioco.
Il contrasto tra ricchezza e povertà è tuttavia non si trasforma mai
nella facile lezione di morale secondo la quale il denaro non dà la felicità,
ma diventa un’esaltazione del senso del dovere, in nome del quale ognuno di
noi è chiamato al proprio compito dalla vita e deve saper affrontare le
difficoltà con coscienza e dignità.
Un altro tema ricorrente è quello della solitudine, condizione
comune a molti personaggi, una solitudine non tanto materiale, ma interiore, in
cui si può senz’altro cogliere un riflesso dell’esperienza personale della
scrittrice. Tale aspetto è evidente del resto nella frequente assenza della
figura materna, il nume tutelare che avrebbe preservato i protagonisti- ma
soprattutto le protagoniste femminili di molti romanzi- da tanti dolori.
La solitudine dunque accompagna la vita di molti personaggi della
Salvioni.
Rimane sola Stella, perché i figli, per il bene dei quali lavora tanto
duramente ed ha sacrificato tutto, anche l’amore, se ne vanno. E’ sola anche
Erminia, non soltanto dopo aver perso il padre e la madre ed infine anche il
fratello, ma anche prima, perché le sue aspirazioni e i suoi desideri erano
sempre stati messi in secondo piano dagli stessi genitori, proiettati
com’erano verso la carriera ecclesiastica del primogenito. Erminia si era
abituata a cancellare se stessa, a rimanere in ombra fin dall’infanzia. La sua
è una solitudine rassegnata, percepita come una condizione naturale.
Strettamente collegato con il tema della solitudine vi è quello
dell’amore.
Sono quasi sempre amori tormentati, spesso mai realizzati, quelli che
vivono nei romanzi della Salvioni. A volte nemmeno confessati dagli stessi
personaggi, vissuti sempre più nella potenzialità del rimpianto che nella
realtà. All’appagamento dell’amore si oppone quasi sempre la rinuncia, la
necessità del sacrificio, uno dei temi dominanti
nella produzione della scrittrice.
Stella rinuncia all’amore di Arrigo per senso del dovere, per amore dei
figli a cui sente di doversi dedicare anima e corpo.
La ragione, la morale, la coscienza del proprio ruolo hanno la meglio
anche in Carlotta Varzi.
Angelica Urban rinuncia a sposare Antonio per restare con la sorella:
antepone la sua decisione di diventare maestra, di “lavorare per vivere”,
all’amore, pur sapendo che ‘quella’ era l’ultima possibilità che la
vita le avrebbe concesso.
In tutti i casi quindi domina la rinuncia in nome di qualcosa che si
ritiene più alto e più nobile: la morale, l’amore per i figli, il senso del
dovere. E la rispettabilità, ma non intesa come un’etichetta esteriore, bensì
come unica condizione per la serenità.
I personaggi creati dalla Salvioni, in particolare quelli femminili,
appaiono votati al sacrificio.
Non sono immuni tuttavia da turbamenti e da rimpianti: se così non fosse
risulterebbero poco credibili. A renderli veri, umani, è il dubbio che subentra
sempre in ognuno di essi, il pensiero tormentoso di ave rinunciato a vivere una
parte importante della vita.
A salvarli dall’amarezza e dal rimpianto si fa strada a questo punto la
profonda e lucida consapevolezza di avere agito per il meglio, di aver fatto del
bene: Stella ha assicurato ai suoi figli una discreta posizione e il buon nome,
Angelica Urban, rinunciando al matrimonio, spinge Antonio a sposare la donna da
cui ha avuto un figlio. La serenità raggiunta dalle sorelle Urban non è la
parente povera di una felicità mancata, ma qualcosa di più profondo.
Dimostrano di aver compreso il vero significato della vita umana che è degna di
essere vissuta in ogni suo momento, anche nel dolore e nel sacrificio, senza mai
perdere mai perdere di vista quello che è il fine della nostra esistenza, cioè
il bene.
Ed a questa conclusione profondamente serena e di un ottimismo veramente
cristiano, la Salvioni giunge con naturalezza , senza dare l’impressione di
seguire una tesi preordinata. Se è vero che gli uomini fanno spesso l’amara
constatazione che nella vita è il male ad essere premiato al posto del bene, è
vero anche ciò che dice la scrittrice riassumendo in poche parole il
significato di “Lavorare per vivere” e cioè che:
“Malgrado i suoi errori, quasi a tentoni in una penombra fitta di
misteri, l’umanità segue il concetto del bene, guidata da un’attrattiva
irresistibile. Questa conclusione è ottimista: meno male che finalmente ho
scritto un libro ottimista anch’io…..”
Quella che la Salvioni offre ai lettori è, in fondo, una lezione di
fiducia, di fede nelle proprie capacità di fronte alle prove che la vita ci
impone.
Vi è una netta prevalenza di figure femminili, in queste opere.
Emerge l’immagine di una donna orgogliosa, tenace, coerente con se stessa
e con il ruolo che ha deciso di svolgere. Raramente si lascia lusingare
da facili soluzioni o da comode sistemazioni. E questo per ogni ambiente sociale
in cui si muovono le donne dei romanzi della Salvioni: incontriamo Valeria che
vuole affermarsi nella professione medica e lotta contro l’opposizione dei
familiari che la vorrebbero relegare ad un ruolo che le sta stretto. Per le
giovani di buona famiglia era visto come l’unico fine di una donna e una
sistemazione vantaggiosa era l’obbiettivo prioritario.
Mercedes, un delle protagoniste de “I nostri anni migliori”, incurante
dei consigli di tutti, decide di trovare un lavoro per mantenere se stessa e il
figlio dopo essere rimasta vedova: se per noi oggi questa può apparire la
scelta più naturale, non lo era un tempo e la via di un matrimonio di interesse
era senz’altro la più ovvia e facile.
Carlotta Varzi è una donna tutta di un pezzo, saggia e lungimirante negli
affari. Diviene la colonna portante della famiglia e dirige l’azienda del
marito, dopo la sua morte, in modo esemplare.
Stella fa prosperare l’attività dell’osteria, la Giraldina, prendendo
sulle sue spalle tutti gli oneri sopportando anche il malanimo della suocera.
E’ abile negli affari e nel trattare i clienti, nonostante l’ambiente della
locanda potesse favorire situazioni poco piacevoli: il suo senso pratico e la
sua semplice dignità sono sufficienti ad incutere negli avventori il dovuto
rispetto.
I personaggi maschili, per contro, rimangono in secondo piano e non
reggono il confronto piano e non reggono il confronto con quelli femminili.
Rivelano spesso un carattere debole, fiacco, a volte si mostrano incapaci
di reagire di fronte alle avversità. Molti di essi sono accomunati
dall’indecisione e dalla mancanza di fermezza; sono inclini piuttosto a
sfuggire le difficoltà e ad appoggiarsi completamente alle loro compagne. Se
agiscono con decisione, molto spesso sono spinti dall’orgoglio o da un bisogno
di rivalsa, raramente operano in nome di alti principi.
Le donne al contrario non si tirano mai indietro: possono essere abili
donne d’affari, professioniste o anche semplici donne di casa, ma sanno
comunque rivelare le loro doti, la loro saggezza e il loro senso pratico,
amministrando, ad esempio, con oculatezza i beni di famiglia.
C’è senz’altro un fondo di femminismo in questo: si afferma il
diritto di una donna di conquistare il suo posto nella società mettendo a
frutto le proprie doti personali e le proprie capacità.
Il passo successivo sarebbe stato quello di far nascere in questi
personaggi l’energia e il coraggio di combattere anche per la propria
realizzazione dal punto di vista sentimentale. Ma ciò non accade, non coincide
con la scala di valori in cui queste donne credono: al dovere, all’onore e
soprattutto all’affetto per i figli si può e si deve sacrificare prima di
tutto l’amore.
Accanto ai protagonisti, nei romanzi della Salvioni si muove
un’ampia schiera di personaggi minori: domestiche, cuoche, istitutrici,
governanti, ognuna di esse con la propria particolare fisionomia. Tra i
personaggi di contorno spiccano le “vecchie signore”, alle quali è affidato
un ruolo marginale nella vicenda, ma che spesso emergono per la loro energia e
per la vivacità con cui sono caratterizzate. Uni splendido esempio di queste
figure così ben delineate ci è offerto in “Lavorare per vivere”:
“Quando scendeva alla Pieve di Contigo, la signora Catina di
Rovendolo metteva sul vestito una mantelletta ricamata a lustrini neri che aveva
portato in dote; la mantelletta, secondo lei, faceva sempre la sua ‘matta
figura’ e tutti eran così abituati a vedergliela in dosso che, senza di
quella, avrebbero stentato a riconoscerla. Col suo passetto breve andava prima a
discorrere di politica con la vecchia madre del farmacista, grande lettrice di
giornali; passava poi a confidare certe sue pene alla signora Chiara della casa
accanto; riattraversava il paese per abbracciare la giovane sposa del medico e
verso le undici si presentava palazzo Falier, dove la contessa le
faceva servire il caffè ch’era sempre pronto a qualunque ora….”
La ‘santola’ Catina compare in scena per commentare i
cambiamenti, i momenti cruciali della vita delle sorelle Urban. Si fa portavoce
del ‘coro’, delle opinioni del mondo esterno. Questo suo ruolo è
significativo e, a mio parere, in qualche modo è una testimonianza dell’amore
che la Salvioni aveva per il teatro: in un suo racconto la scrittrice ricorda di
aver provato in coinvolgimento emotivo così forte durante le rappresentazioni
teatrali a cui assisteva da bambina, da piangere inconsolabilmente dall’inizio
alla fine, suscitando il disagio del padre.
Oltre alla santola Catina troviamo la signora Pavari de “Gli amanti
veneziani”, che trascorre tutti i pomeriggi seduta vicino alla finestra dl
tinello ad osservare la società migliore della città che passa per la via; ma
senza dubbio, nel panorama dei personaggi minori della
Salvioni, spicca la figura della ‘contessa’ che incontriamo nella
raccolta “Angeliche colline”.
Nello spazio di poche pagine la scrittrice dipinge il ritratto non solo di
un’anziana nobildonna , ma del tramonto di un’epoca, del declino di
un’intera classe sociale:
“La palazzina sorgeva in fondo a un giardino triangolare che
s’affacciava col vertice sulla piazza.(…)Al tavolino , nelle belle giornate,
sedeva la contessa, all’ombra, tra la frescura delle piante. Doveva essere
allora sulla sessantina e la sua figura, piccola e snella, era quella di una
giovinetta.(..) Vestiva sempre di nero e portava al collo più giri di perle
nere e ai polsi sottili braccialetti d’argento che tintinnavano ad ogni gesto.
Un paniere infioccato di nastri stava sul tavolino e la contessa lavorarava
all’uncinetto, chiacchierando.
La contessa non era mai sola sul terrazzino, nessuno dei suoi conoscenti
passava per la piazza, senza soffermarsi a salutarla. Di lontano il rialzo
ombroso assomigliava a un minuscolo palcoscenico: vi comparivano a vicenda
signore anziane e ragazze, vecchi e adolescenti.
Ne giungeva di continuo un cinguettio confuso di saluti, di complimenti,
di risatine e l’intercalare caratteristico della contessa, che rivelava la sua
origine dal Friuli orientale ‘Cossa la vol?’.
I parenti della contessa avevano largamente approfittato della
generosità disinteressata dell’anziana signora e, con il tempo, il patrimonio
familiare si andava pericolosamente assotigliando, ma ella, con la noncuranza
propria del suo rango, non manifestava alcuna preoccupazione. E quando dovette
dividere l’eredità, cedendo alla sollecitazioni dei figli, si finse
compiaciuta di essere stata sollevata da noie e preoccupazioni:
“Cossa la vol? Tanti pensieri, tante fatiche….Adesso ognuno ha
avuto il suo e tutti insieme mi passeranno una rendita annua. Meglio così, non
è vero?”
Un po’ alla volta, insieme alle porcellane e all’argenteria, se
ne andò tutto ciò che era stato il simbolo di un’epoca: la servitù
scomparve, le stoviglie apparivano scompagnate, ma la contessa riceveva ancora
con la stessa grazia immutabile:
“Sedeva come al solito al tavolino di pietra e lavorava
all’uncinetto, quasi non sapesse come occupare il tempo. Gli abiti neri
consumati via via sulla personcina sempre snella: le collane di perle nere, i
braccialetti d’argento non riuscivano più a dissimulare la povertà.(….)
Fino all’ultima ora la contessa ebbe sulle labbra l’eroico sorriso e
forse l’ultima sua parola fu ancora l’intercalare, simbolo della sua
perfetta rassegnazione: “Cossa la vol?”
Personaggi come la contessa o la santola Catina conferiscono una
grande vivacità alla prosa della Salvioni perché non diventano mai dei tipi
prevedibili e cristallizzati nel loro ruolo, ma hanno un’individualità ben
definita ed una credibilità che talvolta vanno oltre la narrazione e li rendono
indimenticabili.
La lettura dei romanzi rivela la grande padronanza della scrittrice
nell’uso del linguaggio.
Il suo stile narrativo non si può compendiare in una definizione
schematica perché è così vario e notevole che, di volta in volta, la lettura
di un romanzo rivela nuovi aspetti della sua tecnica espressiva. Nelle prime due
opere si nota una certa ampollosità e il linguaggio è intriso di espressioni
un po’ enfatiche, che scompaiono completamente però, senza lasciare traccia,
in quelle successive. Molto frequente è l’uso del discorso diretto, che
permette di ottenere una discreta immediatezza e garantisce la naturalezza di
uno stile sciolto e non appesantito da troppe lungaggini.
Ma la Salvioni rivela le sue doti di narratrice soprattutto nella capacità
di calarsi nei personaggi senza sovrapporsi ad essi. Si percepisce la sua
presenza e si coglie la sua personalità dietro alcune delle figure femminili più
riuscite: non c’è mai una pretesa di assoluto oggettività, tuttavia la
scrittrice sa calibrare il tono e il registro con vera maestria in base alla
psicologia del personaggio e alla sua estrazione sociale.
Gli uomini e le donne che vivono nei suoi romanzi non seguono un copione
prestabilito, ma esprimono con le loro parole il loro mondo.
E’ un linguaggio contadino quello di Stella, versato nelle cose, dimesso
e schietto, non allusivo.
Sono le ‘cose’ stesse a
parlare e non potrebbe essere che così per una donna che vive di concretezza e
di quotidianità, di fatica e di sacrificio: è l’espressione immediata di chi
non evita gli ostacoli con giri di parole, ma raggiunge subito l’obbiettivo.
Ben diverso è il modo di parlare di Angelica Urban, controllato e
ricercato, e di sua sorella
Maddalena, che si fa addirittura manierato e rispecchia, soprattutto nella prima
parte del romanzo, gli effetti dell’educazione che veniva impartita alle
giovani di buona famiglia. A ciò si unisce una sua naturale incapacità di
esprimere liberamente i propri sentimenti, che vengono spesso condensati e
convogliati in frasi di una ineccepibile, ma sentenziosa saggezza:
“Quando non si fa il male non si devono temere le ciarle dei
malevoli. La maldicenza è dannosa non solo perché distrugge il buon nome di
una persona, ma anche perché toglie a quella persona una delle ragioni che
possono trattenerla sul retto cammino: il rispetto di sé….”
E il linguaggio si fa portavoce dei sentimenti e degli umori dei
personaggi, rivelando talvolta più di quanto essi non dicano, come nelle
schermaglie amorose tra Elena e Scaini in “Pietro Ventura”, costruite su un
malizioso gioco di corteggiamento, fatto di allusioni, di ironia e di finzione.
Quello della Salvioni è uno stile narrativo che, pur nella varietà
dei toni, si mantiene sempre piano e lineare: la scrittrice non amava
l’eccessiva sostenutezza e guardava prima di tutto all’accessibilità ed
alla carica comunicativa della sua prosa, riuscendo tuttavia ad armonizzare
questa esigenza con una certa sperimentazione in campo stilistico.
Il romanzo “Danaro” ci offre l’esempio di uno stile molto
particolare: in quest’ opera la Salvioni si serve della tecnica del
‘monologo interiore’ per poter seguire passo per passo i pensieri di ‘Dina’,
la protagonista, nel corso di una giornata destinata a mutare radicalmente il
corso della sua vita.
La scrittrice non si spinge ad abbattere completamente le strutture
sintattiche della frase, non arriva al ‘flusso di coscienza’ joyciano,
tuttavia, annullando i limiti dello spazio e del tempo, conferisce a questo
romanzo una notevole originalità.
Se in “Danaro” il tempo viene considerato e concentrato in una sola
giornata, ne “I nostri anni migliori” si dilata e si spezza insieme: nella
trama vi è un salto temporale di vent’anni ed i protagonisti, ritrovandosi
dopo tanto tempo, ripensano al loro passato. Tale espediente non suscita
tuttavia nel lettore una sensazione di artificiosità, perché la Salvioni
riesce a creare intorno ai personaggi un’atmosfera di grande naturalezza e
credibilità che rende questo romanzo, dalla forte impronta corale,
particolarmente interessante.
Nella consapevolezza di non poter dare un quadro esauriente della
produzione di questa scrittrice, penso che sia comunque interessante soffermarsi
ancora un po’ sul romanzo che io ritengo il risultato più alto:”Intanto
Erminia…” del 1956.
E’ un’opera singolare anzitutto per la forte componente di
autobiografismo: la vita di Erminia si intreccia con quella della scrittrice,
prima bambina e poi divenuta donna quando la vecchia governante di casa Salvioni
muore.
Erminia è molto giovane quando scoppiano i moti del ’48 e diviene una
testimone inconsapevole e disorientata di cambiamenti storici e sociali di cui
non comprende se non il disordine e lo stravolgimento della vita modesta, ma
tranquilla che la sua vita conduceva. Il padre, un conservatore convinto, non sa
adattarsi al nuovo ordine delle cose. Dopo la sua morte, Erminia e la madre
trovano una sistemazione nella casa del fratello abate, in una sperduta località
di montagna. Qui Erminia conduce una vita molto ritirata e il suo isolamento è
reso ancor più rigido dalla necessità, per una donna nubile, di non dare adito
a pettegolezzi.
Pur essendo ancora giovane si adatta a vivere nell’ombra, senza mai
lamentarsi, anzi in qualche modo serena perché convinta dell’immobilità
della pacata sicurezza della sua vita.
Ma dopo la morte della madre e la prematura scomparsa del fratello,
conoscerà ben presto la mancanza di gratitudine dei parenti e delle molte
persone che Don Cesare aveva aiutato con una generosità che oltrepassava spesso
i limiti delle sue possibilità. Tutti sembrano ansiosi di liberarsi di lei. Ed
Erminia, con rassegnazione, ma con profonda dignità, decide di trovare lavoro
come governante per potersi mantenere.
E’ qui che la vita della famiglia Salvioni entra nel romanzo: Emilia era
allora molto piccola, aveva perso la madre e rimarrà poi sola con il padre
quando la sorella maggiore verrà mandata studiare in collegio. La governante
diventerà perciò naturalmente un punto di riferimento per la bambina, un porto
sicuro in cui rifugiarsi. L’affetto e l’intimità che si stabiliscono tra
Erminia ed Emilia sono evidenti in alcuni episodi molto significativi: una volta
il professor Salvioni si era scordato di preparare la calza per la Befana ed
Erminia, per non deludere le aspettative della bambina, spende di nascosto i
suoi pochi risparmi. In un’altra occasione Emilia, divenuta più
grande, scopre di aver perduto la grammatica di latino e, angosciata al
pensiero dei rimproveri paterni, trova ancora una volta nella governante un
valido aiuto: il libro, recuperato in un mercatino dell’usato, diviene motivo
di affettuosa complicità.
Erminia era una donna semplice, nel sentire e nel comunicare, ma non per
questo meno profonda: lo dimostra la sua capacità di comprendere e consolare
Emilia, ormai cresciuta, di fronte alle inquietudini e agli impulsi di
ribellione tipici degli adolescenti.
Quando, ormai vecchia e non più autosufficiente, Erminia trova posto in
un ricovero per anziani, Emilia prova un profondo dolore per non essere in grado
di stare vicino fino in fondo alla donna che l’aveva allevata. Sente di
mentire promettendole una diversa soluzione, prospettando un suo imminente
ritorno a casa, e sa che Erminia e consapevole di ciò, ma finge di crederle,
abituata da sempre ad accettare ciò che la vita le riserva.
Alcuni brani di questo libro sono molto commoventi, primo fra tutti il
momento dell’ultimo addio fra Emilia ed Erminia, ma ciò che rende
quest’opera così vera è il realismo sobrio e privo di divagazioni che la
caratterizza. Scompare la narratrice per lasciare il posto ad Emilia, prima
bambina e poi donna, tuttavia la scelta della Salvioni di raccontare episodi e
vicende della propria vita, non toglie efficacia narrativa al romanzo, al
contrario, caduta ogni mediazione, gli conferisce un’eleganza e un realismo
non comuni.
Anche altri personaggi vennero ispirati alla scrittrice da persone
conosciute, ma Erminia non è la protagonista di un romanzo, è una persona
vera.
La personalità di Erminia viene delineata con rara efficacia: quella che
viene descritta è una donna che per sua natura parlava poco ed era cresciuta
all’ombra del fratello seminarista. Durante la sua giovinezza non le era mai
parso possibile, non soltanto esprimere, ma persino desiderare qualcosa di
diverso da ciò che per lei disponevano i genitori. Per tutta la sua esistenza
rimane ai margini della vita, devota e sottomessa, una figura di contorno di
contorno nella vita degli altri.
Tuttavia la forza con cui sa adattarsi alle necessità della vita rivelano
la sua grande energia interiore e, in qualche modo, l’affetto che la unisce ad
Emilia la ripaga per tutto ciò che la vita le ha negato.
Si sente la commozione nelle parole della Salvioni, soprattutto quando
rivede se stessa, ancora bambina, mentre ricerca fra le braccia della vecchia
governante l’affetto e le attenzioni che solo una madre può dare, ma il tono
della narrazione non diventa mai lacrimoso, ed Erminia, con la suo devozione, il
suo ritirarsi nell’ombra, riesce ad emergere insieme alle protagoniste
femminili dei romanzi della Salvioni per
la sua composta dignità e, in fondo, per la sua forza, una forza non
appariscente, ma non per questo meno vera.
In una nota posta alla conclusione del romanzo la scrittrice dice: “Da
tempo desideravo scrivere questo libro: sarebbe stato non un monumento, no
certo, ma una croce di legno dedicata a una memoria carissima. Ma ne mancava però
il coraggio. E’ tanto difficile, non solo per me, ma anche per giovani di
valore sicuro, fa r accettare ad un editore un manoscritto che non risponda a
certe sue esigenze e premesse, perché sgorgato dall’umanità dell’autore.
Per lavorare in piena libertà ed abbandono bisogna godere di larga fama e aver
raggiunto primati di vendite. Non è il mio caso.”
La validità di questo romanzo, “la povera e nuda storia” che la
Salvioni dedicò ad Erminia, venne riconosciuta dai critici che le assegnarono
il premio Manzoni, tuttavia la scrittrice presagiva in qualche modo quello che
sarebbe stato il destino della sua opera.
Nel 1947, in un’intervista pubblicata su “Traguardo Azzurro”, la
Salvioni conclude con queste osservazioni un bilancio della sua attività
letteraria:
“La critica mi è stata abbastanza favorevole, il pubblico non mi
ha né adottato né respinto.
Il mio è stato un successo mediocre, più scoraggiante di un successo”
A dettare alla scrittrice queste parole così amare furono senza
dubbio lo scoraggiamento e la delusione di chi, consapevole delle proprie doti
artistiche, non le vedeva sufficientemente riconosciute ed apprezzate. Una
spiegazione della scarsa attenzione che la critica rivolse all’opera della
Salvioni si potrebbe forse trovare nella molteplicità stessa delle attività
letterarie a cui si dedicò contemporaneamente, senza concentrarsi su quella che
le stava più a cuore; tuttavia, a mio parere, non è tanto nelle opere della
Salvioni, molte delle quali di indubbio valore, che va ricercata una ragione
della sua scarsa fortuna, quanto nella sua stessa personalità, schiva e così
poco propensa a lanciarsi nella
lotta per il successo.
Ma soprattutto, al di sopra di ogni tentativo di
spiegazione, io penso che non si sia verificata per nessun romanzo della
Salvioni, neppure per quelli che ottennero dei riconoscimenti ufficiali, quella
particolare condizione favorevole che, unita ai pregi artistici, determina il
successo di un’opera.
Ma se a distanza di molti anni dalla sua pubblicazione, “Intanto
Erminia…” non può non affascinare il lettore per l’efficacia e la
semplicità con cui la nostalgia del ricordo personale si trasforma in racconto,
viene spontaneo auspicare che, a mezzo secolo di distanza, di fronte al
proliferare di pubblicazioni spesso di scarso valore, ma di tanto clamore, il
talento letterario della Salvioni possa finalmente trovare il meritato
riconoscimento.
di Paolo Baroni
Paolo
Baroni, laureato in lettere, con esperienza di insegnamento in Italia e
all'estero,
si è occupato principalmente di letteratura francese cui ha dedicato
interessanti interventi critici.
* Articolo in corso di pubblicazione
Una raccolta di testi, brevi, quasi frammenti di un
testo più vasto adagiato in attesa in un luogo profondo, recondito; e di cui
appaiono schegge e sprazzi, in superficie. Schegge galleggianti, che si
scontrano, si raggrumano; frammenti la cui sostanza, alla fine, risulta percorsa
da indicazioni di senso, intenzioni, emozioni, pensieri…
Infatti, la festosa animazione di un mondo che si
era creduto definitivamente perduto, si configura grazie alla forza di una
felicità di vivere che non è semplice dono o favore del destino. Qui si tratta
dell’effetto di un’applicazione, costantemente rinnovata, tesa a vincere una
resistenza.
*
* *
Si
tratta, spesso, di cose senza conseguenze di rilievo.
Si
può sorridere, francamente, dell’errore della monaca. Quanto all’invidia,
si sa, è il motore del mondo… Ci si può fermare un momento, sì, stupiti:
umane debolezze, come si suol dire. Le cose si fanno invece più inquietanti se
qualcuno incespica sui coinvolgimenti affettivi cui teniamo maggiormente. Si
veda nel testo La Befana: un padre,
che pur ama con tutta l’anima la figlioletta, può infliggerle, ciò
nonostante, un’acuta ferita col dimenticare, senza apparente motivo, il dono
rituale per lei.
Errori?
Talvolta è una guerra desolante che ci confina nell’estraneità e
nell’ingiustizia. Come nella Contessa: “Si sapeva che tra
la madre e il figlio avvenivano scenate violente” (p. 107)
e che alle figlie “tornava utile
quello che alla madre non serviva quasi mai” (p. 107). E la madre, che
amore è il suo?
Si
direbbe che perfino nell’amore, con il quale avevamo pensato di saper vedere
ben più lontano che non con i semplici lumi della ragionevolezza, l’amore, al
quale avevamo attribuito, forse, la capacità di non sbagliare mai, anche
nell’amore, qualcosa s’intoppa, qualcosa produce effetti inattesi; anche in
esso l’errore s’insinua.
Sono
constatazioni semplici, che pure confermano un dubbio sulle capacità di
orientamento e di continuità della persona.
Ma
ci sono frustrazioni decisamente più angosciose: “L’osteria
si trovò presto in piena linea di battaglia: bombardata furiosamente, crollò.
C’è ancora la stazione e il piazzale è sempre lì. Gli alberi della strada
napoleonica hanno di nuovo il loro superbo fogliame, ma tutto ha cambiato
aspetto. Un albergo, con la facciata adorna di fregi in cemento, ha preso il
posto dell’osteria, e lì presso, un distributore di benzina allinea
colonnette di un rosso fiammante. […] Il sole batte sempre con la stessa
veemenza sui muri e sulla ghiaia, verso sera giunge quel filo d’aria dal
fiume…ma non è più la stessa cosa” (p. 67).
Non
si tratta più di eventi che, con l’impiego di una buona volontà, dopo tutto,
potremmo anche accontentarci di definire incidenti di percorso, cadute
momentanee della coscienza. Debolezze umane, ancora una volta, alle quali si
potrebbe, in ultima analisi, portar riparo? Cose da rivedere, che si
aggiusterebbero solo a correggere la mira?
Dove
sta l’essenza di noi stessi? Ciò che in noi deve durare? La nostra condizione
sarebbe solo un divagare nella costellazione degli addii?
Si può pensare che sia così, a rileggere la conclusione della Voce
del tuono: “Le nuvole fuggivano
verso la pianura, umiliate, nerastre. Il tuono seguiva borbottando, in tono
sempre più basso, sempre più rabbonito. Ero contenta del ritorno del sereno,
eppure m’attristava quella voce che s’allontanava come in un saluto
d’addio…” (p. 28)
Sono
molti gli addii di Angeliche
colline. La constatazione è solenne, definitiva, senza rimedio. Da Giardino pubblico: “Quando,
diventata grande, ho voluto mescolarmi ai giuochi degli adulti, mi sono accorta
che anch’essi mi accoglievano nei loro gruppi soltanto in apparenza. Ho finito
quasi sempre col tirarmi da parte e restarmene sola a guardare lo zampillo della
fontana, col cuore stretto, come facevo da bambina al giardino pubblico.”
(p.36).
Apparenze,
dunque, i nostri atti, le nostre agitazioni. Nell’umana commedia l’illusione
scandisce con i suoi tempi, i modi dei nostri amori, giudizi, ragioni, delle
nostre azioni, sublimazioni…
Vivere,
sarebbe quindi ingannarsi, inseguire fantasmi sul percorso di un maligno gioco
di specchi.
*
* *
Questa
descrizione del mondo è – fondamentalmente – un’accettazione,
il segno di una felicità.
Il
valore di ogni essere umano non sembra essere messo in questione. Quel che
appare dominante è l’attenzione, la pretesa di non sbagliarsi sul valore degli esseri e
delle cose. Si tratta di farli partecipi della felicità nostra, di esercitare
il nostro discernimento perché suoni, colori, sentimenti, con il peso che è
loro naturale, siano presenze per la nostra contentezza di esistere. Di qui,
appunto, la puntigliosa descrizione,
l’immersione nel mondo sensibile che la scrittura – scrittura poetica –
opera con delizia abbondante. Non fantasmi, ma spessore di cose. Cose e persone,
profumi, odori, suoni e movimenti, stati dell’animo – lontani nel tempo e
presenti – sono percepiti nel recupero di un piacere, anche se ad essi scivola sovente vicino l’accento di un
rimpianto.
Un
progetto di presenza e di pienezza che non cancella, certo, il ricordo di motivi di
lacerazione, lì a far da contrappunto ad un più intenso possesso di sé. Gli
affetti, le figure della memoria vengono a distendersi in limpide superfici,
come sciolti e distinti da una necessaria oscurità o indeterminatezza e
ricompongono trame, figure di senso.
Una
scrittura chiara, diritta, comprensibile, che comunica a tutti.
Il
senso si concentra nel dinamismo delle immagini, vibranti, limpide, aeree, pregne di una
leggerezza in progressione continua. C’è un accento di libertà nel
proiettarsi dello sguardo dalla terra al cielo in movimento, nel desiderio che
induce le cose a muoversi, a resistere, impennarsi o sottomettersi. È un modo
di contemplare.
Nella
Voce del tuono – scritto
emblematico, giustamente ammirato – vi è certo lo spazio dell’ira che
incombe. Ma tutto è tonico di spostamenti turbinosi, di mobilità descrittiva,
di speranze definitive. Uno slancio di vita, di elevazione:
“Lassù, sopra la più alta
montagna turchina, appariva un ritaglio di cielo chiaro, splendeva nel
crepuscolo temporalesco come una promessa” (p.27).
Lo
stesso frammento di cielo chiaro lo incontriamo in Terra
promessa: “In
certi punti un brandello di cielo rosato, un ritaglio di nube splendente,
specchiandosi nel fiume, interrompevano con una chiarità improvvisa il soave
presentimento della sera” (p. 52).
Il
mondo è dunque quello che è. Ma sembra, almeno per un istante, di percepire il
desiderio – la sicurezza, anzi – che tutto emani calore.
Il calore che la vita sa dare nell’immediata sua manifestazione o natura.
Anche il male, dunque, manifestazione della vita, potrebbe far parte di quel
mondo di pienezza. Come per la bambina di Carnevale
che dai vetri della finestra, nella giornata di pioggia, si accende di desiderio
sulla scia delle maschere in domino, per la stradetta malfamata: “La
bambina sostava incantata dinanzi alla doppia schiera di figure misteriose,
osservando ogni particolare e specialmente i ricami in lustrini d’oro e
d’argento, con trasognata passione. Invidiava le megere deformi che vivevano
nei minuscoli retrobottega e sembravano ragni in agguato presso alla tela
scintillante di rugiada” (p. 59).
“Quella
era una strada malfamata e la bambina lo sapeva. Una brutta strada, le dicevano,
pensando che non capisse il significato delle parole, mentre essa aveva un
concetto inesprimibile, ma preciso del male che s’annidava fra le mura
screpolate e dietro le persiane fradice. Non detestava quel male e non ne aveva
paura, benché fosse così vicino, che quasi poteva toccarlo” (p. 58).
È
appena il caso di dire che la vena anticonformista ed ironica di Angeliche
colline non conosce la tentazione di un’adeguazione di bene e di male.
Questo perché il piacere non è una questione di facilità,
di abbandono irriflesso all’ordine delle cose così come si presentano a noi o
ci sono date.
Il
fatto è che la coscienza, Emilia
Salvioni, non l’esclude mai. E con essa, inevitabilmente, il desiderio di una
giustizia da riaffermare o, eventualmente, da riscoprire.
Ci
eravamo lasciati incantare dalla naturalezza del ritmo dei testi, fino a
dimenticare, quasi, che di una questione morale si trattava; benché in essi,
appunto, non ci si scontri mai con l’intenzione, o la presunzione, di rifare
l’uomo e le cose da cima a fondo.
*
* *
Allora
val la pena di riconsiderare i margini del male di vivere, della frustrazione
incontrati all’inizio, perché forse nei loro risvolti sta anche la
premonizione di un impulso vitale, di un sapere diverso.
Le
fratture di una coscienza individuale, si diceva, ma anche le faglie che
allontanano gli uomini l’uno dall’altro. L’esperienza della separazione:
“Gli ultimi visitatori sedevano in
faccia all’ospite, desolati e compassionevoli, ma nemmeno ora osavano
esprimere i loro sentimenti o venirle in aiuto” (La
contessa, p. 108).
Inconsapevoli
vittime del proprio orgoglio, gli uomini stanno, ristagnano, imputridiscono in
un reciproco ignorarsi. Inganno crudele quello della coscienza orgogliosa, che
si vuole paga di sé, che non si trascende nell’altro. Inevitabili seguono
vuoto e dolore.
Rileggiamo
in Vendemmia: “Era
ormai calata la sera. Correvano le donne con i lumi. Due giovanotti scalzavano e
si sciacquavano i piedi nella vasca. Poi li vedevamo danzare là in alto,
sull’uva, alla luce delle lanterne. Era un po’ triste pensare ai grappoli
gonfi e dorati, che si frangevano sotto la spinta energica, per noi che amavamo
l’uva più del vino, ma ci distraeva l’animazione intorno, soprattutto
quando, aprendo la cannella, cominciava a colar fuori il mosto torbido e biondo
e se ne riempiva il primo boccale. Lo zio, in piedi al suo posto di comando, lo
assaggiava per primo schioccando la lingua una volta o due, prima di far cenno
d’assenso” (p. 74).
Hanno
faticato dall’alba al tramonto, ora gli uomini convergono nell’ombra per
l’attesa. I piedi dei giovani scalzi impastano l’uva nel tino. La gente si
addensa, intorno al punto della trasformazione, nell’ansia del giubilo che
precorre l’offrirsi del dono. Sanno che l’uva viene dal sole e dalla terra.
Nell’oscurità le luci spiano il rito: chissà da quale notte, da quale
tempo…Ormai la poltiglia nel tino ha raggiunto l’impasto ideale. La
consistenza dell’uva si scioglie. L’asciutto è ora molle, bagnato. È come
l’equilibrio di una dinamica. E allora ecco il mosto: la sostanza della
conversione. I bicchieri si riempiono e si beve. Un movimento nuovo appare, una
danza collettiva, tutti insieme.
La parola, dunque, il canto, insieme. Si scioglie
la troppo lunga connivenza della coscienza con se stessa. “Il
sole già si faceva sanguigno”, “Tutto
ardeva come fuoco”. La fantasia infuocata conduce verso un al
di là. Al di là della sponda dove si stava impietriti senza la forza di
cercare il guado. Ora il sangue del sole è promessa di un mutamento sostanziale
di vita, di vigore ritrovato. Il fuoco arde, brucia le barriere e fa luce.
Illumina gli altri, il pulsare segreto
di vite spesso sommesse. La separazione si stempera. Sorge insomma la
disponibilità essenziale a non fare della felicità individuale il sistema di
annullamento della presenza altrui.
Adesso le cose sembrano più chiare, più distese.
Più chiaro il senso dell’accettazione,
di cui questo libro è un canto. Se lo si riapre, daccapo, quale consonanza di
immaginazione ritroviamo fin dalle pagine del Bucato!... “Mi par
d’esserci ancora: vedo le facce delle donne contratte dalla fatica e
trionfanti nel tempo stesso” (p. 17). Anche qui in relazione con la
sostanza perfetta che è la pastosità
delle cose: “rimaneva un intruglio
grigio scuro, pastoso, sparso di chiazze liquide, simile a una pianura che
emerge da un’inondazione” (p. 18). Lo slancio del trionfo, della fatica
comune, corale… all’origine dell’emergere di una terraferma… Come in un
sogno o come un risveglio. L’emblematica scena di Vendemmia
lascia intendere lo spiraglio che si presumeva nascosto: la minaccia di
parcellizzazione della coscienza nel tempo si dissolve nella felicità di un passaggio
possibile. Oltre la separazione – quale inganno, ancora una volta, l’aver
cercato soltanto in se stessi – sta il ponte, il transito decisivo. La continuità è semplicemente il riferimento ad altro da sè: “C’erano,
sparsi sulla tavola, ritagli di stoffe variopinte e uova. Sulle uova sode
dipingevano occhi, nasi, bocche, facce rubiconde […]. Preparavano
quell’improvvisata per i bambini […]. Le due sorelle sorridevano quietamente
lavorando” (Notte di Pasqua, p.
110).
*
* *
Il
motivo della festa si sprigiona con slancio solenne nel testo che dà il suo
nome alla raccolta, Angeliche colline. V’è in esso una duplicità inattesa di piani,
là dove la processione pasquale è definita come “festa primitiva” (p. 63). Un percorso si chiude e uno spazio
inatteso illumina soluzioni aperte, possibili… L’uomo e le cose muoiono,
s’è detto, e il nostro destino di dipendenza e di solitudine persiste. Ma
dallo zoccolo duro delle colline sorge il miracolo dei fuochi che ardono: “Intanto
si scorgeva nella tenebra ormai calata, la tenebra più densa dei monti e delle
colline. Ma queste ardevano tutte di fuochi [...] sicché di poggio in poggio i
dossi scuri si ingemmavano di fiammelle chiare e brillanti. In quel modo
pregavano le colline” (pp. 62-63).
Festa
primitiva, di invocazione, di supplica, di esultanza. “Le
case [...] avevano lumi a tutte le
finestre e ne raggiava una luce d’aurora, trepida e rosata” (p. 62).
Festa
primitiva, cioè festa essenziale, semplice, primordiale come quelle di lontani
tempi…E’ qui che il testo evidenzia una dimensione insospettata, dalle
conseguenze tutt’altro che trascurabili: la denuncia della sopravvivenza di un
sentimento antico, sempre uguale, fin dai tempi dell’inizio della civiltà è
la constatazione che, al di là dei nostri deserti ricorrenti, qualcosa dura
nel tempo. Nella dimensione del sacro
l’uomo saprebbe dunque opporre al suo destino la realtà di una persistenza
che gli sembrava inizialmente negata.