Emilia Salvioni   
Una scrittrice ritrovata

Rassegna stampa e Recensioni

 

    Alcuni articoli on line su Emilia Salvioni:

    http://seiamontanelli.diludovico.it/2006/11/09/una-donna-e-il-suo-tempo/

    http://www.noidonne.org/index.php?op=articolo&art=1052

    http://www.aib.it/aib/editoria/dbbi20/salvioni.htm

    http://galassialibri.blogspot.com/

    http://www.libriincantina.it/news.php?n=6

    http://it.wikipedia.org/wiki/Emilia_Salvioni

 

 

 

L’AZIONE 23 ottobre 2007

 IL RITORNO DI EMILIA SALVIONI

La scrittrice sepolta a Pieve di Soligo al centro di un programma di rivalutazione che impegna anche il Comune di Pieve di Soligo

Antonio Menegon 

Emilia Salvioni, prima scrittrice di una “galassia sommersa” che Antonia Arslan intende riportare alla luce.

Una giornata di studio al Festival della Letteratura a Mantova il 5 settembre e un incontro a Susegana il 16 settembre, nell’ambito della Mostra nazionale della piccola e media imprenditoria “Libri in cantina” hanno permesso di fare il punto su una scrittrice, la pievigina Emilia Salvioni, appunto, che pur evrndo pubblicato per Mondadori, vinto premi letterari e diretto una collana di libri al femminile per la Cappelli, non riuscì mai ad affermarsi completamente sulla scena della cultura nazionale.

“Abbiamo voluto buttare il cuore oltre l’ostacolo con un progetto che è una speranza e una proposta- spiega la scrittrice Antonia Arslan-. In generale l’idea è quella di riscoprire quella galassia sommersa di autrici italiane di ieri e di oggi di cui si ignora l’esistenza, ma che sono di grande valore. E si è cominciato con Emilia Salvioni, una donna che scriveva per narrare ciò che di solenne e di minimo le stava intorno, per dare ai suoi lettori il senso della gioia e della fatica di essere”.

Ascritta all’area delle scrittrici cattoliche, Emilia Salvioni, nata a Bologna nel 1895, è stata in realtà una figura inquieta. che spesso si è interrogata sulla giustezza della morale a cui era ispirata la sua educazione di ragazza rimasta precocemente orfana della madre. Una scrittura colte e semplice allo stesso modo caratterizza i suoi romanzi; un’ambientazione dei romanzi in cui il lettire della provincia si riconosce, e ancor di più si riconoscono i lettori di Pieve di Soligo, dove Emilia ha soggiornato a lungo e dove è sepolta dopo la morte che l’ha colta nella natia Bologna il 4 giugni 1968.

Con la donazione di moltissimi documenti (lettere, minute, cartoline, fotografie, i dattiloscritti originali dei romanzi ed anche un inedito) al comune di Pieve di Soligo, da parte di Amalia e Maria Corrà e da Emilietta Schiratti, nella biblioteca civica è nato il “Fondo Salvioni”.

Il progetto di valorizzazione della scrittrice pievigina ha così in punto fermo propriop nella documentazione depositata in un apposito spazio della biblioteca, ma è la ripubblicazione di tre opere della Salvioni (“Angeliche Colline”, “Lavorare per vivere” e “Carlotta Varzi S.A.” ) a rilanciare prepotentemente la figura della Salvioni. Si accorgono di lei le donne dell’Aidda, l’associazione delle donne imprenditrici e dirigenti d’azienda che rimangono incantate dalla figura di Carlotta, protagonista del romanzo riedito nel 2006 da Canova.

 

CORRIERE DEL VENETO 25 agosto 2007    Cultura & Tempo Libero

 LA “GALASSIA SOMMERSA” DI EMILIA SALVIONI di A.G. 

“Esistono decine, centinaia di scrittrici italiane che hanno prodotto romanzi brillanti e che sono però state oscurate dall’oblio del tempo. Con questa rassegna abbiamo deciso di puntare la nostra attenzione su una di queste: Emilia Salvioni, sensibile romanziera di Pieve di Soligo”. Parole di Antonia Arslan, autrice de La masseria delle allodole e curatrice della rassegna “La galassia sommersa”, giornata di studio dedicata alla scrittrice Emilia Salvioni, a cui il comune di Pieve di Soligo ha recentemente dedicato un museo che raccoglie il suo archivio di novelle e romanzi, alcuni mai pubblicati.

“Uno di questi si intitola Carlotta Varzi S.A. – spiega l’autrice padovana- un’opera appassionata, immersa in un’atmosfera fondamentalmente drammatica. Purtroppo un romanzo che per molto tempo è rimasto intrappolato tra le pieghe del tempo e della dimenticanza. La giornata di Mantova costituisce una sorta di riparazione di questo involontario torto. Alla riscoperta di questa autrice siamo stati aiutati da alcuni studiosi delle università americane: è quantomeno singolare che Emilia Salvioni sia conosciuta oltreoceano mentre qui giacciono nell’oblio”.

 

GAZZETTA DI MANTOVA  08 settembre 2007 

ANTEPRIMA DU FESTIVAL AL ROTARY MANTOVA SUD

UNA SERATA CON L’AIDA E ANTONIA ARSLAN di    Davis Raddi 

QUISITELLO. Anticipazione del Festival Letteratura all’Ambasciata di Quisitello con il “Rotary Mantova Sud”. Una serata all’insegna della cultura e del talento della donna si è svolta nel tempio del gourmet all’Ambasciata di Quistello, dove tutto era curato nei minimi particolari per il “Rotary Mantova Sud” guidato dal cavalier Ferdinando Bombarda, che ha accolto l’Associazione Aidda (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti D’Azienda) in una piacevolissima serata all’insegna delle donne nell’impresa e nella lettura. Gradita ospite la professoressa Antonia Arslan dell’Università di Padova, nonché autrice de “La masseria delle Allodole” ed ospite del Festivaletteratura, che ha tracciato un excursus del ruolo della donna in veste di scrittrice e poetessa. “Occorre riscoprire queste figure di donne- ha detto Arslan- che hanno dato un contributo al pensiero e alla letteratura. Donne coraggiose, scrittrici e giornaliste, inspiegabilmente dimenticate o taciute, che hanno invece dimostrato una grande  conoscenza e capacità imprenditoriale nella società italiana”. Un connubio di valori, capacità r talento tra scrittura e mondo imprenditoriale femminile, condiviso dal “Rotary Mantova Sud”, vista la presenza di Beatrice Biancardi (socia del Club oltre chi di Aidda), è ciò che la serata del “Rotary”, ha voluto sottolineare, grazie alla partecipazione dell’associazione delle donne imprenditrici, guidata da Laura Frati Gucci, che ha messo in rilievo quella particolare “sensibilità” legata al cuore, che il mondo femminile delle donne, capaci di fare impresa, possiedono come peculiare valore aggiunto. Con la professoressa, è intervenuta Luisa Cigagna, assessore alla cultura del Comune di Pieve di Soligo, curatrice del fondo Salvioni. Nella serata sono state ospiti Mara Borriero e Stefania Mazzola, rispettivamente presidenti Aidda della delegazione Veneto-Trentino Alto Adige e di Mantova.

 

L’AVVENIRE 05 settembre 2007  Agorà    cultura religioni tempo libero e sport

 EMILIA SALVIONI, “FEMMINISTA” DA SCOPRIRE di   Daniela Pizzagalli

 “Un simile temperamento d’artista prima o poi vincerà”, diceva Marino Moretti negli anni ’50 di Emilia Salvioni, scrittrice molto prolifica tra narrativa per adulti e per ragazzi, novelle, teatro, biografie storiche, collaborazioni a giornali e riviste, in particolari quelle ventennali presso “L’Avvenire d’Italia”, l’”Osservatore Romano” e “Alba”. Abbastanza affermata durante la vita, anche come membro attivo della cerchia intellettuale di Bologna, giurata in importanti premi letterari, direttrice di una collana “rosa” per l’editore Cappelli, la Salvioni è stata rapidamente dimenticata dopo la morte, avvenuta nel 1968. Di recente si è offerta la possibilità di una riscoperta della scrittrice veneta- che, sebbene nata a Bologna dove il padre era docente universitario, si dichiara “veneta per quattro quarti” per le origini familiari- grazie a nuove edizioni di alcuni dei suoi libri più significativi, come i romanzi “Lavorare per vivere” e “Carlotta Varzi S.A.”, e la raccolta di elzeviri “Angeliche colline” (Guerini e associati) pubblicati a cura del comune di Pieve di Soligo, dove la Salvioni trascorreva le vacanze, in una casa di famiglia molto amata, sfondo di tante belle pagine letterarie. Custode, grazie alla donazione degli eredi, dell’archivio della Salvioni, il comune di Pieve di Soligo ha affidato a un comitato scientifico presieduto dall’accademica e scrittrice Antonia Arslan, fervida ricognitrice della “galassia sommersa” delle scrittrici italiane, il compito di ricordare l’autrice attraverso un convegno: una sfida che l’Arslan intende sviluppare riproponendo ogni anno una scrittrice dimenticata, appartenente a una diversa regione, in una sorta di percorso letterario al femminile attraverso la Penisola. Di Emilia Salvioni si parla anche al Festivaletteratura di Mantova, oggi alle 18. Scrivere, per la Salvioni, non significò mai appagare un’ambizione, ma un’esigenza di comunicazione che- come affermò in una lettera- restò insoddisfatta: “Credo di non aver mai scritto, o ben di rado,senza una ragione, che lì per lì mi sembrava valida e urgeva, salvo scomparire addirittura appena licenziate le bozze. Se la letteratura mi è stata causa più di tormento che di gioia, una ragione ci deve essere, o nella qualità del mio lavoro o nella scontrosità del mio carattere, per cui sono rimasta sempre isolata”. Nei romanzi di Emilia Salvioni- i più intensi sono quelli a cavallo della seconda guerra mondiale- dominanti figure femminili al bivio di snodi esistenziali che da una parte che da una parte promettono nuove libertà e spazi di emancipazione, ma dall’altra rischiano di travolgere i capisaldi etici della tradizionale cultura femminile. Ad esempio in “Lavorare per vivere” Angelica Urban, in difficoltà economiche dopo la morte del padre, si presenta autodidatta all’esame magistrale, rifiutando una tardiva proposta di nozze del cugino, così come Carlotta Varzi, insolita imprenditrice, non si concederà il conforto di pur agognati cedimenti emotivi.  A prevalere, quasi malgrado le ispirazioni anticonvenzionali dell’autrice,  che s’intuisce tormentata dai dubbi, sarà la forza di volontà, che non senza sofferenze saprà  imporre una visione più alta: “Come mai gli uomini, cos’ spesso vinti nei loro nobili disegni, continuano a lodare, ad amare le virtù? L’istinto, le passioni, ogni loro desiderio avrebbe piuttosto dovuto spronarli ad abbandonarla come un vuoto miraggio... Invece la virtù e la saggezza stanno al di sopra di tutto, dominano il destino, indifferenti come le montagne solenni”.

L’AZIONE  16 settembre 2007        ANTONIA E LE ALTRE

Da venerdì 14 la mostra nazionale della piccola e media editoria omaggia l’ingegno femminile

Ingegno femminile, cultura dell’ambiente, educazione e didattica sono i temi della quinta edizione “Libri un cantina”, la mostra nazionale della piccola e media editoria, che venerdì 14 e domenica 16 settembre si tiene a Susegana, nella prestigiosa sede del castello di San Salvatore.
Intorno ad una sessantina di editori, che nei piani nobili di palazzo Odoardo propongono la loro produzione originale e indirizzata su specifiche tematiche, sono in programma numerosi appuntamenti a cominciare con gli incontri con L’astrofisica Margherita Hack, la scrittrice Antonia Arslan, la ricercatrice e giornalista scientifica Maddalena Jahoda, l’attore e scrittore Giuseppe Cederna, Gianni Secci dei Belumat, solo per citare i personaggi più conosciuti. L’ingresso a tutti gli eventi è libero. “Il comune di Susegana ha avuto il coraggio di promuovere questa iniziativa a favore della piccola editoria, che vive senza appoggio, con grande forza e spirito imprenditoriale- osserva il direttopre artistico di “Libri in cantina” Roberto Da Re Giustiniani-. Chi verrà in castello sabato e domenica potrà trovare libri che molto spesso non si trovano in libreria, libri originali, frutto dell’atteggiamento di curiosità, ingegno e voglia di sperimentazione che la grande editoria non ha più”. Nella serata di venerdì “Libri in cantina” apre i battenti alle 21, nella sala Conti di Treviso nel secondo piano di palazzo Odoardo, con il preludio musicale che vede protagonista il Gruppo D’archi veneto diretti da Franco Poloni. Sabato e domenica la mostra nazionale della piccole e media editoria entra nel vivo. L’inaugurazione ufficiale con le autorità e la principessa Trinidad di Collalto, che anche quest’anno farà da madrina all’evento, è prevista sabato alle 10.30. Poi un susseguirsi di incontri con autori, presentazione di libri, laboratori didattici, proposte di creatività e curiosità culturali, come il “Gioco dei sigilli” proposto dall’artista coneglianese Gianni Sartor. Promossa dal comune di Susegana, con la Regione Veneto, la provincia di Treviso e numerosi sponsor privati, la mostra nazionale della piccola e media editoria “Libri in cantina” ha come valore aggiunto l’ambinte di grande fascino e originalità qual è il Castello del Casato Collalto dove l’evento ha luogo.

Ma veniamo alle donne, protagoniste indiscusse della quinta edizione. L’astrofisica Margherita Hack, figura di spicco della ricerca astronomica nel nostro paese, presenta il libro “L’universo di Margherita” (editoriale scienza) alle 21 di sabato. Domenica alle 11.30 la biologa marina Maddalena Jahoda, che nel 1986 era nella pattuglia dei pionieri che partì alla ricerca dei grandi mammiferi in Adriatico, presenta il libro “Le mie balene. I cetacei del Mediterraneo visti da vicino” (Mursia). Introdotta dall’assessore alla cultura del comune di Pieve di Soligo Luisa Cigagna, Antonia Arslan presenta domenica alle 16.30 il libro “Carlotta Varzu S.A.” (Canova Edizioni), uno straordinario romanzo della pievigina Emilia Salvioni, scrittrice dimenticata del ‘900 per cui la Aslan sta dedicando non poche energie a beneficio di una sua riscoperta e valorizzazione. Da segnalare anche l’incontro con Gianno Secco dei Belumat in programma sabato alle 17.30, quello con Fabio Gava, Rina Biz e Paola Pagotto che alle 10 di domenica presentano il libro “Genitori in movimento”, l’incontro con Giampiero Rorato sulla grande cucina regionale alle 18.15 sempre di domenica e, ancora domenica, ma alle 18.30, l’attore e scrittore Giuseppe Cederna presenta il libro di Vittorio De Savorgnani “Cansiglio Nostra Signora”.

La mostra suseganese è anche una ghiotta occasione per visitare il castello di San Salvatore, generalmente chiuso al pubblico, ma anche per immergersi nell’ambiente ancora incontaminato delle colline che lo circondano. La mostra nazionale della piccola e media editoria “Libri in cantina” chiude i battenti domenica alle 20. Il programma completo è pubblicato sul sito www.libriincantina.it.

 

 

  La tribuna  Emilia Salvioni   STORIA DI CARLOTTA, 30 maggio 2006

Una donna imprenditrice, degli anni ’30, ma con le stesse fragilità di oggi. è Carlotta Varzi, protagonista dell’ omonimo romanzo di Emilia Salvioni, riedito dalla casa Canova di Treviso e curato da Carlo Caporossi. La scrittrice, di Bologna ma pievigina da parte di madre, morta nel 1968, viene ritrovata grazie al comune di Pieve di Soligo, che dopo aver ridato alle stampe i racconti Angeliche colline e il romanzo Lavorare per vivere, grazie all’ Assicurazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’ Azienda, fa tornare alla luce quest’ opera. Il romanzo scritto nel 1941 e dato alle stampe nel 1947, narra di una giovane donna che sogna di diventare maestra, un modo, per emanciparsi. Il padre però morirà e lei,primogenita, dovrà portare avanti l’ attività di famiglia, un panificio. Si dedicherà anima e corpo a questa attività, dalla quale poi nascerà una fabbrica. Sposerà un uomo molto più anziano di lei, che morirà mentre si trova al culmine della carriera. La vita la metterà di fronte a diversi momenti affettivi e ad un certo punto dovrà scegliere tra una vita sentimentale felice e un successo imprenditoriale. La storia è un po’ anche quella di Emilia Salvioni, che ha dedicato la sua vita alla scrittura (60 opere e collaborazioni con 35 testate) e che ha vissuto, si potrebbe dire, in una povertà di opportunità personali. Alla docente universitaria Atonia Arslan si deve la riscoperta della scrittrice pievigina, quando nel 1984, ne affidò lo studio, come tesi di laurea, ad una sua studentessa. Presentazioni al pubblico: giovedì 8 giugno, alle 17, a Palazzo Rinaldi a Treviso e sabato 10 giugno, alle 18, nell? Auditorium Battistella Mccia di Pieve di Soligo. (Salima Barzanti)

 

  L’ azione, 4 giugno 2005 n. 23

PIEVE: ripubblicato un romanzo di Emilia Salvin. é stato pubblicato dalla casa editrice Canova, il romanzo “Carlotta Varzi S.A.”, composto nel 1941 dalla valente scrittrice Emilia Salvioni, particolarmente legata a Pieve di Soligo perché pievigina, per parte di madre. Autrice sensibile e attenta alle tematiche dell’ affermazione femminile nel mondo economico, la Salvioni tratteggia nell’ opera, con acuto realismo, la figura di una capitana d’industria degli anni Trenta, tale Carlotta Varzi, che sacrificherà vita e affetti per consolidare l’ attività artigianale del padre fornaio. La riedizione del romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1947, è stata promossa dal comune di Pieve di Soligo, nelle vesti dell’ assessore alla cultura Luisa Cigagna e sostenuta finanziariamente dall’Aidda (associazione imprenditrici donne e dirigenti d’ azienda). L’ opera sarà presentata al pubblico in due eventi distinti: giovedì 8 giugno, a palazzo Rinaldi, a Treviso alle 17 e sabato 10 giugni all’ auditorium Battistella Moccia a Pieve di Soligo. Appuntamenti nei quali interverranno come relatori Atonia Arslan e Carlo Caporossi, curatori della riedizione a Patrizia Artuso, insigne studiosa dell’ opera letteraria di Embolia Salvioni.

 

Da La Tribuna di Treviso, giovedì 28 settembre 2006

IL LIBRO CARLOTTA VARZI

Il romanzo di Emilia Salvioni Carlotta Varzi s.a., edito da Canova, sarà presentato domani al Sarcinelli di Conegliano, da Patrizia Artuso, studiosa della scrittrice e da Carlo Caporossi che ha curato il libro. Chi è Carlotta Varzi? Una donna che, negli anni '30, da semplice commessa in una drogheria, con un padre fedele alla tradizione che rifiuta cambiamenti che potrebbero incrementare l'attività, diventa un'imprenditrice di successo. Abortito il sogno di diventare maestra, eredita un negozietto sull'orlo del fallimento e lo trasforma in una redditizia e moderna impresa che da lavoro contribuendo a migliorare gli standard di vita del suo ambiente. un'antesignana della piccola e media industria che avrebbe caratterizzato l'economia del Nord. Ma alla sua notevole abilità come capitano d'industria non corrisponde la stessa realizzazione come donna innamorata. Si sposa con un maresciallo in pensione, che la lascia vedova. Fra di loro affetto e  rispetto reciproco. La passione vera e propria è un'altra cosa. Fino al momento in cui incontra un uomo che la vuole, scatenando l'attrazione fisica, ma non l'ama. E la costringe a riflettere sulla sua vita che "era fuggita così... un vino dolce e generoso...versato inutilmente".  (f.p.)

 

«Mettere in lettera i miei poveri sospiri…»

Il carteggio di Emilia Salvioni ed Arnoldo Mondadori

da "Il Veltro. Rivista di civiltà italiana", 1-2 Anno XLVIII. Gennaio-Aprile 2004

    La recente ripubblicazione di due opere di Emilia Salvioni,[1] nello scorso autunno, ha riportato in luce il nome di questa scrittrice dopo un oblìo di molti anni, grazie all’autorevole interessamento di Antonia Arslan Veronese e alla passione di Patrizia Artuso. È stata una felice riscoperta non soltanto per quanto concerne la scrittura della Salvioni, ma anche per la possibilità di ripercorrere la sua esperienza umana ed intellettuale che offre interessanti motivi di riflessione, soprattutto ora che la si può osservare col distacco che il tempo necessariamente impone e che, in un caso come questo, gioca a favore dell’autrice.

   Contestualizzata storicamente come piuttosto marginale ai fermenti dei suoi tempi, collocata geograficamente in uno spazio molto limitato, Emilia Salvioni si rivela uno di quei casi, frequenti quando si parla di scrittrici, in cui una pur attenta analisi dell’esperienza di vita e di scrittura, da sole, non consente di cogliere appieno il valore – che è globale – del personaggio, soprattutto se quello stesso personaggio sembra vivere una storia a sé, all’interno del panorama culturale: fuori dai grandi circuiti letterari, caratterialmente aliena da una “visibilità” pubblica, connotata da un’esistenza povera di eventi, non fa meraviglia che Emilia presto sia stata dimenticata. Poterla rileggere e poter riparlare di lei è dunque anche un’occasione per un’indagine retrospettiva volta a cogliere gli aspetti meno evidenti del personaggio Salvioni, che in un caso simile sono i più significativi, per comprendere un valore più profondo dell’esperienza culturale oltre che esistenziale di Emilia, aspetti che offrono una sorta di valore aggiunto che completa, riassume la donna e la scrittrice in un unicum spirituale di alto livello.

   La vita di Emilia Salvioni, che copre un arco di tempo dal 1895 al 1968, altro non è che l’esistenza di una tipica “signorina di provincia”, figlia di una buona borghesia della campagna trevigiana, Pieve di Soligo, pur essendo nata a Bologna nel 1895, dove il padre insegnava Statistica all’Università. Rimasta presto orfana di madre, interruppe gli studi regolari dopo il ginnasio e ricevette la solita educazione riservata alle signorine di buona famiglia, preparate ad entrare in un mondo pensato dagli uomini, creato per gli uomini e soltanto subìto dalle donne. Ma al di fuori di questo ritratto, quasi un cliché, applicabile anche a molte altre storie femminili, Emilia fu una di quelle donne che “crebbero da sé”, si istruirono profondamente con l’osservazione, la sensibilità, la volontà di seguire un cammino verso una vetta spirituale e culturale, l’insaziabilità di conoscere e la capacità successiva di selezionare, di evolvere in cultura l’erudizione, di fare dello studio una materia di vita, e di trasferire presto nella scrittura l’analisi del mondo e dello spirito umano appresa studiando e vivendo. Esperienze compiute in sordina, fra molte difficoltà: ma sono queste le condizioni in cui si forma uno spirito tenace, una personalità definita, e sembra così di vedere in Emilia l’immagine di una donna che visse sì “in punta di piedi”, per indole, formazione e necessità, ma con straordinaria intensità, tenacemente silenziosa e presente, organizzata nella sua vita, razionale, una donna precocemente matura che senza strepiti riuscì a fare della realtà il prodotto della sua volontà. Allo stesso modo, con lo stesso stile, la sua cultura fu vastissima e profonda, ma, parafrasando il bel ricordo di Emilia scritto da Deda Pini, era una cultura che “non si vedeva”, per così dire. La si scopriva a poco a poco dietro quel suo sorriso fine e arguto, quel suo dire semplice e modesto, e una volta scoperta non se ne toccava mai il fondo.

   L’autodidatta Salvioni nel 1927, spinta dalla necessità di lavorare per vivere, divenne bibliotecaria presso l’Istituto Giuridico di Bologna e vi rimase fino ad un anno prima della morte, alternando al lavoro la scrittura, che le occupò ogni momento libero, con un ordine, sembra quasi di poter dire una “pulizia” di vita che la distinse in ogni ambiente che si trovò a frequentare. Allo stesso modo, se Bologna fu sempre la città del lavoro e della scrittura, Pieve di Soligo costituì per tutta la vita il buen retiro, il luogo del riposo, degli affetti, delle origini, e qui è tutta la geografia di Emilia, come quella di tante altre donne che nell’intera loro esistenza varcarono di poco e raramente la soglia di casa. Ma dietro al lavoro, agli affetti, all’amore per la propria terra d’origine, ad un’esistenza metodica e povera di eventi, visse uno spirito che non cessò mai dall’indagine introspettiva e critica, che operò un acuto scandaglio della realtà, anche in quegli spazi così limitati. La Salvioni non fu una rivoluzionaria, non attese né avrebbe approvato il trauma di un cambiamento radicale della società, ma pur dalle sue posizioni conservatrici visse, osservò e scrisse, con un atteggiamento di indagine critica, la sua “provincia”, luoghi e persone, che nelle sue opere divengono trasposizioni letterarie di una materia vissuta, non semplici realtà raccontate: e “vissuta” vuol dire soprattutto analizzata, criticata, esaminata con gli occhi di chi riesce a conoscere attivamente ciò che vive poiché prima lo ha osservato con rispetto e attenzione, poi l’ha penetrato e fatto suo con intelligenza e sensibilità, conservando in ogni caso una salda autonomia morale, non cedendo mai ad un’acquiescenza acritica. Tutto quel che si presenta come un racconto è invece la vita, perché Emilia raccontando vive i suoi luoghi e le sue persone, le interpreta perché le conosce intimamente ed anche il ricordo, alla fine, diviene un “rivivere” insieme al lettore.

   È dunque una scrittura complessa, quella di Emilia Salvioni, dalle tante valenze che si possono indagare e scoprire dietro una semplicità soltanto apparente che è sì di vita e di forma, ma non di pensiero; scrittura e vita si saldano in maniera inscindibile senza dichiarate pretese intellettuali ma non per questo senza una potenza d’intelletto. Emilia sa bene ciò che vuole e ciò che fa, scrive della propria vita e insieme vive nella propria scrittura: questo è ciò che sta dietro la donna “in punta di piedi”, che sembra chiedere “scusi” e “permesso” ovunque vada, ma il cui passo non trema. E proprio sulla sua consapevolezza di scrittrice, che comprende anche una non meno importante consapevolezza di essere umano, il carteggio con Arnoldo Mondadori offre un documento di inaspettato valore. Quella che nasce come una semplice corrispondenza di lavoro diviene, alla fine, una testimonianza morale ed umana di Emilia Salvioni in lotta con la vita.

                                                                      *  *  *

   Leggendo la nota biografica a cura di Amalia Corrà, nipote di Emilia Salvioni, posta in calce alle recenti riedizioni, avevo visto che vi era stato un pur breve rapporto editoriale fra la Salvioni e Mondadori: nel 1934 l’editore milanese le pubblicò il romanzo Danaro e sul finire del 1937 I nostri anni migliori. Si trattava della prima importante casa editrice, per un’autrice che all’epoca aveva soltanto pochi titoli pubblicati alle spalle, con piccoli editori. Cercando alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori qualche testimonianza di quel rapporto editoriale, mi sono trovato di fronte ad un singolare carteggio che, partito come una necessaria corrispondenza di lavoro, a séguito dello sviluppo di una serie di eventi critici finisce per diventare un’alta testimonianza umana, un manifesto di dignità letteraria e intellettuale come non sempre si riesce a trovare. Se in una scrittrice come Emilia Salvioni, e lo si è visto, è importante scoprire ciò che sta occulto, dietro la prima immagine ch’ella dà di sé, questo carteggio costituisce una prova evidente di “quel che c’è dietro” alla semplice figura di Emilia, e rivela non soltanto la straordinaria potenza della sua scrittura epistolare ma anche la battaglia, avvincente e bellissima, fra due persone costrette dai diversi ruoli, l’editore e lo scrittore, a combattersi, ma fra le quali la schermaglia finisce per travalicare gli aspetti del semplice rapporto di lavoro e diventa lo scontro – si potrebbe dire addirittura lo scontro titanico – di una piccola donna onesta che reclama con coraggio e forza, ad un grande personaggio, una giustizia morale più che la riparazione di un torto contingente.

   Il 24 febbraio 1934 Arnoldo Mondadori scrive ad Emilia che pubblicherà Danaro.[2] L’editore aveva già avuto notizia di questa nuova autrice dalla sua stessa Accademia che l’aveva segnalata prima per una commedia, poi per una raccolta di versi e per lo stesso Danaro. Quel romanzo era peraltro piaciuto a Marino Moretti che, in una lettera a Aldo Valori così ne parla:

… Farò subito qualcosa (tutto quel che potrò fare) per la brava Emilia Salvioni. Parlerò con Mondadori e anche con Tumminelli (Treves); ma i tempi – lo sai – son difficili. Pubblicare un libro – così dicono questi signori – è fare un pessimo affare. Bisogna almeno che un libro d’ignoto esca vincitore d’un concorso d’una certa portata, come sarebbe quello Mondadori. Io consiglierei sempre la Salvioni di mandare il manoscritto al concorso mondadoriano per il romanzo che si chiude il 31 dicembre 1932 (troppo tardi?). Ho molta fiducia anch’io in questa scrittrice. T’ho già detto che ammirai molto i suoi versi (che furono annoverati fra i migliori, ma, purtroppo, non vinsero) e la graziosissima commedia dell’anno scorso. Un simile temperamento d’artista prima o poi vincerà.[3]

    Un buon riconoscimento era giunto anche da Pietro Pancrazi, in una lettera a Peppino Dore del dicembre 1931:

 … Del libro della signorina Salvioni mi aveva già parlato un dei giudici del Premio Mondadori, e me ne aveva detto molto bene. … Mi pare proprio che l’ingegno, la vena della scrittrice questa volta ci siano, anche se ancora allo stato un po’ generico. Forse le gioverebbe rinunciare un po’ alla nativa facilità, e condensare e incidere di più. Ma già ci sono equilibrio e proporzione nel racconto, che sono doti rare, specie nelle donne e nelle donne giovani.[4]

    Danaro fu pubblicato nel 1934 in 3222 copie, di cui 1430 soltanto vendute, come l’editore riferirà, scontento, tre anni dopo. S’erano quindi ancora una volta avverate le parole di Moretti: un romanzo era un pessimo affare e sembra qui di risentire le parole di Treves ad Annie Vivanti, di molti anni prima: “Signorina, noi siamo qui per fare degli affari”… e stavolta non c’era un Carducci che venisse in soccorso di Emilia!

   Visto il precedente, al momento di ricevere il manoscritto successivo, quello che poi sarà I nostri anni migliori, Mondadori non si sbilancia sulla data di pubblicazione, né sembra fare ad Emilia una grande accoglienza, al di là delle solite frasi di forma. In ogni caso, il 9 ottobre 1935 la Salvioni consegna il manoscritto. L’«Almanacco della Donna Italiana», nel recensire Danaro, aveva sì notato la modernità del soggetto e la capacità di Emilia di compiere un’analisi accurata, ma le aveva rimproverato di non commuoversi, di non «dare un po’ di calore alle sue pagine quando vi passa la tragedia», di non saper «commuovere il lettore».[5] Emilia sembra aver tenuto conto delle critiche ricevute e, nel consegnare il nuovo manoscritto a Mondadori acclude una lettera in cui afferma, fra le altre cose:

 sono convinta che questo libro è, in certo senso, migliore dell’altro, che se ho perduto volontariamente qualche sottigliezza ho acquistato qualche vivezza di fantasia e di rappresentazione. Affido il destino di questa modesta opera alla fortuna e alla sua sensibilità.

    Non sono giorni facili, quelli, dal momento che l’Italia, pochi giorni prima, è entrata in guerra contro l’Abissinia e molti progetti editoriali devono subire necessariamente modifiche e aggiustamenti, vista la nuova realtà. Certo è che questa, per Mondadori, diventa subito una buona scusa per posticipare la pubblicazione dell’opera di Emilia. Gentile, ma fermo, l’editore le scrive di lasciar decidere a lui il momento opportuno per la stampa. La Salvioni non obietta, pur se il tempo passa; soltanto il 1 marzo 1936, gentile e compìta, prende il coraggio di farsi risentire:

 Se non si tratta che di attendere spero che lei non mi neghi il pregio di saper attendere senza inutili lagnanze e non cambierò la mia linea di condotta purché, come ella promette, io sia certa di non essere dimenticata.

   Nel frattempo la storia fa il suo corso, la guerra finisce, l’Italia ha vinto, sui “colli fatali di Roma” è risorto l’effimero impero e nel generale trionfo Mondadori continua a tacere. Tace anche Emilia, ma il suo silenzio si carica più e più, ogni giorno, di angoscia. Combattuta fra la fiducia – la fiducia di una persona perbene, che ne sa il valore – e la paura, timorosa di non riuscire a spuntarla in un ambiente pieno di personaggi più noti di lei e che senz’altro hanno maggiori possibilità di farsi ascoltare e rispettare, nell’anniversario della consegna del manoscritto Emilia, con ansia e dolore, riprende la penna per scrivere la prima lettera a Mondadori in cui, insieme ad una sorprendente capacità di scrittura epistolare, chiara e netta, offre il primo ritratto della sua grandezza umana: 
 

So benissimo che nel febbraio scorso ho preso con lei l’impegno di tacere, tacere sempre nella fiducia di conquistarmi col silenzio il suo prezioso appoggio. Lei in cambio avrebbe pensato a farsi vivo con me nel momento opportuno.

E io, fedele, aspetto. I tempi, che erano davvero molto tristi, si sono un po’ rasserenati, e io zitta, per paura di disgustarla. Ho visto anche che la sua Casa ha affrontato il rischio di pubblicare nuovi romanzi, anche di autori del mio calibro, e non dubito che abbia avuto da compiacersi di tali atti di coraggio. Io sempre zitta. Ma lei sa com’è quando uno tace e rimugina: gli vengono in mente centomila dubii. E se il commendator Mondadori, con tante cose che ha da fare, con tanta gente che gli sta attorno, con tanti pensieri che avrà per la testa si dimenticasse di me poverina di cui nessuno gli parla, nemmeno io? E di lì a poco: figurati, s’è bell’e dimenticato di certo.

Così ho tirato avanti, sperando e disperando, scommettendo con me stessa e perdendo la scommessa, finché mi son trovata nell’anniversario della consegna del mio manoscritto. I mesi non li ho più contati, secondo le sue prescrizioni, ma gli anni anche a non volere si sentono scoccare.

Non so nemmeno perché le scrivo. Per ricordarle che aspetto e mi affido a lei che non mi ha mai mancato di parola. Per raccomandarle la mia sorte, il mio lavoro, le mie speranze. E per dirle che rimango sempre la sua devotissima Emilia Salvioni

 

   Zitta, fedele, ma attenta, Emilia, che vede pubblicare autori del suo “calibro”, espressione da intendersi non certo come presuntuosa, e che accanto a ciò capisce lo svantaggio di non avere nessuno che possa intercedere per lei con Mondadori. Pur limitandosi soltanto a ricordargli quella parola che le aveva dato, sente il tempo che passa e ne esprime gli effetti con termini di una semplicità disarmante e terribile, ma proprio per questo così efficace: «gli anni anche a non volere si sentono scoccare»… e il tempo che passa mina ciò che per Emilia è la vita: la sorte, il lavoro e le speranze, una trinità spirituale dove il lavoro si colloca al centro, e che appare ancor più bella nella nudità dolorosa con cui è esposta. In quella  tragica semplicità, senz’aggettivi, senza alcun di più, le parole si caricano di un valore spirituale che rende vera, grande la figura di Emilia. Anche la sua grafia chiara, la sua scrittura semplice ne tratteggiano l’immagine di una persona che non cerca mai di essere diversa da quel che è, che non inventa mai niente, che si porge così com’è, devota e sincera.

   Mondadori, l’uomo d’affari, risponde con toni e parole che eludono sincerità di Emilia: afferma che la tiene presente, sì, ch’ella non dubiti, ma prima devono venire le stampe di Badoglio e di Starace per «dare agli italiani la tangibile prova del suo amoroso contributo ai sentimenti ed all’orgoglio di tutti». E così il tempo continua a passare.

   È ora che Emilia sente la necessità di impostare una strategia, eppure non riesce a non essere sincera, confessando anche i primi dubbi – più che legittimi – che le stanno sorgendo: com’è possibile, infatti, che una grande casa editrice possa fermare ogni pubblicazione per soli due libri, siano pur essi di due grandi gerarchi del regime? E ancora il timore che la sua opera, invecchiando, possa perdere quel che a lei premeva più d’ogni altra cosa: la vita, quella carica di vita che è intrinseca all’esser nuovo non di stampa, ma di idea. È il 20 dicembre 1936, ed Emilia torna alla carica:

Lei aveva detto: mi lasci lanciare Starace e Badoglio e poi penserò anche a lei. Il trovarmi in compagnia di così grandi personaggi, sia pure in coda, mi faceva soggezione solo a pensarlo e mi sembra persino inverosimile che una grande casa editrice come la Sua non abbia qualche rotella secondaria che funzioni per i poveri diavoli miei pari … Ma dopotutto i due libri a cui ella accennava sono usciti … ora secondo la sua promessa verrebbe la mia volta. Ahi lassa! … lei non ignora che i libri invecchiano in un anno anche se sono destinati a restar giovani per secoli (non parlo del mio, si capisce…). Io prego di tanto in tanto qualche persona autorevole di dirle una parola nell’orecchio in mio favore ma so, dentro di me, che la più altolocata suggestione non vale per lei quanto una frase spontanea che tocchi il suo cuore.

    La frase spontanea che poteva toccare il cuore di Mondadori è contenuta in questa lettera, ed è una testimonianza splendida che Emilia ci lascia di sé, affermando, in quello scritto, d’esser lì a «mettere in lettera i suoi poveri sospiri»… espressione bellissima, che dice di un mondo, di una vita di volontà e di impegno nell’opera della scrittura, che apre uno squarcio più doloroso e consapevole su quelle che poco prima erano state delle paure, vere ma ancora generiche, per la propria sorte, il proprio lavoro, le proprie speranze. Si sta preparando il terreno ad uno scontro che vedrà il pur abile, scaltro Mondadori trovarsi davanti ad una creatura dall’imprevista forza di un gigante. Frettolosamente, tre giorni dopo, l’editore risponde:

 ho ancora da stampare molti altri volumi sull’epopea africana, di storia e di politica. Quindi lasci decidere a me il tempo migliore perché il suo volume possa vedere la luce.

    Emilia comprende sempre di più che – forse – soltanto una voce vicina all’editore potrà aiutarla e all’inizio del 1937 un amico bolognese di lei, Patuelli, intercede presso Giorgio Franchi, già all’epoca importante collaboratore di Mondadori, per caldeggiare l’edizione de I nostri anni migliori. È una bella lettera, quella di Patuelli che scrive a Franchi con amicizia, mentre è in procinto di partire per un viaggio, e gli raccomanda Emilia definendola «una delle poche, vere scrittrici italiane», ma agghiacciante è una nota, scritta a mano in cima alla lettera, a matita, probabilmente dallo stesso Franchi: «devo dirgli che non lo pubblicheremo?»; e il perché è presto spiegato dal foglietto accluso, in cui si possono contare le poche copie vendute di Danaro. I giochi sono già fatti, la sorte di Emilia è segnata, Mondadori ha deciso e resta soltanto da trovare come liquidare la questione, come mettere a tacere quel piccolo e scomodo personaggio. È Franchi che prova ad occuparsene, con una lettera del 22 marzo 1937, un tentativo di diplomazia epistolare che riesce ad essere soltanto un’operazione maldestra e che provocherà l’indignazione di Emilia, colpita non soltanto dal tradimento, ma anche dalle modalità, troppo estranee a lei, con cui si tenta di neutralizzarla. Dopo mesi e mesi di rimandi e lusinghe, ecco infatti che Franchi scrive: 
 

Posso assicurarle che il mio Amministratore Delegato ha presente il suo volume ed è più che mai favorevolmente disposto nei suoi confronti. E’ soltanto un’impossibilità che nasce da forza maggiore quella che gli vieta di pensare, per ora e forse per molti mesi ancora, alla stampa del Suo libro. Io ben capisco d’altra parte il suo legittimo desiderio e giustifico la sua impazienza così come giustificherei – e prima di me certamente il G. U. Mondadori – se ella pensasse di affidare ad altro editore il suo volume.

Sarebbe ciò certamente motivo di particolare rincrescimento per la Casa Mondadori – che la annovera fra le sue Autrici più care – ma non potrebbe che trovare logica ed umana questa sua decisione.

   Certo per credere a una simile lettera sarebbe necessaria un’ingenuità enorme, e forse è proprio questo che si pensa di Emilia, presso Mondadori. Ma l’inganno di una simile ipotesi viene svelato immediatamente dalla risposta della Salvioni che, in due distinte lettere a Mondadori e a Franchi, rivela tutta la sua determinazione, tutta la sua lucidità di interpretazione, tutta la sua volontà di non soccombere e la rabbia, anche, per esser giudicata così facilmente turlupinabile, per vedere come la semplicità, l’onestà siano fraintese con la dabbenaggine. Il 25 marzo Mondadori riceve una lettera di fuoco da Emilia, che – con dolorosa ironia – lo mette spietatamente davanti al suo misfatto:

 

Illustre e caro Commendatore,

io veramente, finché non l’ho sentito dire quasi dalle sue labbra, non potevo crederlo. Ma dopo la lettera del dott. Franchi non mi resta dubbio: se avessi buon senso io ritirerei il manoscritto che le ho affidato perché le sue ripetute promesse non hanno nessun valore. Strano! La forza maggiore che agisce contro di me non ha agito per esempio l’anno passato contro un’autrice che avrebbe dovuto essere alla pari con me nella sua considerazione, la signora Liala, verso la quale la critica si ostina ad essere così impertinente. Ma guardi un po’, commendatore, la mia condizione: se io ritiro il manoscritto, non posso far altro che presentarmi a un’altra casa editrice (inferiore alla sua, per forza) e mettermi in coda di chissà qual lunga fila di mediocri più benvisti di me, mentre da lei, per grossa che lei abbia la coscienza, io sono già abbastanza avanti. Certo, che io mi ritirassi le parrebbe comodo: ma a me, se ci penso, non verrebbe alcun vantaggio. Bisognerebbe che lei ammettesse di avermi (scusi la parola, fa un po’ impressione ma non è niente) di avermi tradita; di non aver nessuna intenzione di pubblicare il mio libro né ora né mai, malgrado le formali promesse che ho in mano. Ma questo lei non può dirlo, è vero? E allora una volta o l’altra il libro dovrà pur essere pubblicato, e se dev’essere pubblicato che senso c’è a aspettare proprio che sia invecchiato e ammuffito del tutto? Per far del male a me? Bel gusto! Per risparmiare i pochi soldi delle stampe? Via, una casa editrice come la sua! Per paura delle proteste di altri postulanti? E il libro di Liala allora?

Faccia come crede, commendatore carissimo, ma prima che io mi ritiri ce ne vorrà. Io mi sono rovinata per aspettare lei, per essermi fidata di lei. Ora le macerie delle mie illusioni le stanno fra i piedi e le staranno fra i piedi, ho paura, per un pezzo, cioè finché non si sia trovato un altro editore impaziente di dare alle stampe il mio libro. Tanti, tanti auguri di Buona Pasqua: è la prima volta dacché ci conosciamo, che glieli faccio con la bocca un po’ amara, ma sempre di cuore. Un giorno o l’altro vengo a farle visita; so che le secca ma ci vengo lo stesso. Che cosa vuole? Incerti del suo mestiere.

 

   “Tradimento”, “coscienza grossa”, parole mai usate e ora scritte da Emilia con quella stessa nudità di altre volte, che le rende ancor più terribili, cariche di tutto il loro valore, le parole di chi davvero si sente tradito, quando il patto di fiducia – che va ben oltre a delle “formali promesse” – si interrompe perché una delle due parti ha peccato di disonestà: «le sue promesse non hanno nessun valore». È questo che Emilia mette in luce, e ancora una volta questo carteggio rivela la sua bellezza nel dimostrare come, ad un attacco freddo, diciamo pure alla “mossa del tecnico” risponde la voce umana, la voce di chi non si vergogna a dimostrare il dolore e la rabbia, a sciorinare ai piedi del freddo editore “le macerie delle proprie illusioni” perché le veda tutte, gli ingombrino il cammino, gli turbino il sonno. È la gran forza di un incanto caduto, quella che muove Emilia che non si lascia travolgere, nonostante sappia anche di essere in una posizione di estremo svantaggio, forse proprio disperata, ma continua a muoversi con lucidità e precisione, forte del suo spirito di donna tenace, leale e chiara.

   Mondadori non risponde sùbito, e lo si poteva prevedere, alla lettera di Emilia, ed ecco che ella scrive a Franchi, il 4 aprile, per ripetere in sostanza quanto detto all’editore, con in più, però, la possibilità di replicare punto per punto alla lettera ricevuta da lui. Forse è vero quel che diceva Rilke, che l’ironia non scende nel profondo delle cose, eppure ancora oggi, leggendo quanto aveva scritto Franchi, non si può non concepire da parte una donna intelligente e consapevole una risposta che non sia ironica; ed Emilia ora è piena d’un’ironia sottile e terribile, che esprime, dietro il sarcasmo, un disprezzo profondo, accanto al quale, però, non manca la verità dolorosa: quel rifiuto, infatti, l’ha «quasi ammazzata»: 

Il consiglio di ritirare il manoscritto dev’essere buonissimo. E’ bensì, come consiglio, un tantino lapalissiano, come chi dicesse al momento del naufragio: buttati in acqua, tanto devi morire. Non che mi facessi grandi illusioni, ma la conferma sua, che veniva quasi direttamente da Mondadori, mi ha quasi ammazzata. Io non ho a disposizione grandi case editrici … ed eccomi qui a mani vuote. Ho scritto a Mondadori il quale naturalmente non ha risposto. Anch’io al posto suo non saprei cosa dire. Quello della ‘forza maggiore’ è un discorso comodo, ma che presuppone in chi dovrebbe inghiottirlo, un’ignoranza così assoluta di questioni editoriali difficile a trovare in una persona di mediocre intelligenza.

Forse Patuelli avrebbe potuto lasciarle per ricordo, prima di andarsene, qualche cosa di meglio che una scrittrice da patrocinare in una causa perduta.

   Queste due repliche, ardenti, dovettero spingere Mondadori a pensare ad una risposta. Gentile, come accade a chi sa d’essere nel torto, probabilmente (e finalmente…) anche toccato dalle espressioni di Emilia, l’editore il 5 aprile risponde con una lettera dal tono affettuoso e anche dal contenuto meno ambiguo: se è vero che continua a professare simpatia, se è vero che continua ad accampare le fumose cause di “forza maggiore” come impedimento alla pubblicazione del romanzo, è anche vero che, finalmente, a proposito del romanzo, afferma:

Le consiglio molto a malincuore e con vivo rincrescimento di affidare ad altro editore.

    Ma nello scrivere questa lettera il Grand’Ufficiale compie un errore, iniziandola così:

 La sua ultima lettera, con tanti rimproveri che non merito, mi ha profondamente addolorato.

    È qui che Emilia, se comprende come sia ormai chiuso lo scontro sulla materia editoriale, comprende altrettanto, invece, che non si è chiusa la battaglia umana. Si rende conto non solo che il dolore di Mondadori non esiste, ma anche che non è possibile perdonargli di non aver compreso il suo, fors’anche d’aver interpretato le sue parole alla stregua di formule d’abitudine, di frasi fatte, di espressioni di compiacenza. Una volta per tutte, è necessario che l’editore conosca e capisca la verità, e il 12 aprile 1937 Emilia scrive la lettera in cui esprime, chiara e definitiva, la sua totale identità fra vita e scrittura, affinché chi legge possa rendersi conto di non aver soltanto “bocciato” un romanzo, ma di aver frantumato una parte di vita. E siccome queste cose si dicono meglio di come si scrivono, Emilia annuncia a Franchi un suo prossimo arrivo a Mondadori: 
 

Devo domandarle ancora un favore che sarà l’ultimo ed è per questo che lo chiedo senza rimorso.

Le sarei grata se potesse indicarmi un giorno e un’ora in cui mi fosse consentito di vedere con calma il commendatore. Non domando che dieci minuti, ma dieci minuti effettivi, non tumultuosi e ridotti a pochi istanti in pratica, come è avvenuto per altri colloqui col G. U. Mondadori. Non perché io voglia prolungare le recriminazioni, stia tranquillo. Ma perché voglio spiegare la vivacità delle mie espressioni, che il suo Capo definisce ingiuste.

Dal tono cortese e disinvolto delle loro lettere mi accorgo infatti che nessuno di loro si rende conto della gravità del colpo che ho subito: togliere a una persona una parte della sua vita, tale è per me la mia attività letteraria, e mentre quella si dibatte nella disperazione chiamare ingiusto il suo grido di dolore, è a sua volta ingiusto.

Dopo aver illustrato con sangue freddo questo concetto, io sparirò probabilmente per sempre dalla scena, che è quello che si desiderava ottenere. Val la pena di perdere a questo scopo ancora dieci minuti.

 

 

   Franchi risponde a nome di Mondadori, e non senza un tono provocatorio, alla lettera di Emilia il 17 aprile:

 

Sarà gradito riceverla nella ventura settimana.

A viva voce sarà certamente più facile motivarle il perché delle nostre lettere che ella definisce cortesi e disinvolte.

 

   Il colloquio fra Mondadori e Emilia avvenne sul finire dell’aprile 1937. Dalle due lettere, le ultime due, che seguono in ordine cronologico nella cartella della corrispondenza Salvioni alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, si evince che dovette essere un colloquio burrascoso, e chissà mai cosa si dissero i due contendenti…certo è che Emilia ne uscì col contratto editoriale. Il 20 maggio 1937 scrive l’ultima lettera all’editore:

 

Illustre Commendatore,

Ho ricevuto il contratto per l’edizione del mio nuovo libro, firmato da Lei, e la ringrazio vivamente.

Lei non ha risparmiato efficacia di linguaggio per farmi apprezzare il favore che ella mi concede ma stia sicuro che anche senza di esso, io ne conoscevo la grandezza e ne avrei provato, come ne provo, un profondo sentimento di gratitudine.

Mi dispiace infinitamente che, per l’ultima volta che ho la fortuna di essere in rapporti editoriali con Lei, le nostre relazioni non possano essere quelle cordiali di prima. Per quel che riguarda me, mi duole di esser stata indotta a pronunciare in un momento di passione parole di cui ero pentita prima ancora di averne misurato l’opportunità.

 

   Che i toni siano stati forti, che le parole siano state più o meno opportune, certamente è stata la sincerità di Emilia a vincere su Mondadori che in quest’ultimo momento dimostra di essere il grande uomo che fa il grande editore, s’arrabbia, ma comprende chi ha di fronte e infine cede: I nostri anni migliori va in stampa. Emilia ringrazia, torna al suo tono consueto di donna mite e riconoscente a tutto e a tutti, scorda i torti perché mali della vita, ma non i dolori perché mali dell’anima, e termina la sua corrispondenza con un’ultima lettera del 31 gennaio 1938 a Franchi in cui ella stessa dà un ritratto di se a tutto tondo:

 

Il grand’uomo aveva una gran voglia di mandarmi come dicono al mio paese “a remengo” ma ora che è in ballo balla che è una delizia. Delizia…. beh, io per me sono piena di rimorsi: rimorso per quella famosa sfuriata che mi ha guadagnato tutto questo, rimorso per il mio ostinato mutismo, rimorso ahimè d’esser troppo debole, timida, incapace per ricambiare in qualche modo la sua attività di propaganda costringendo la gente a comprare il mio libro. … Io sono stata molto infelice … ho sofferto come un cane.

Lui lo sa che non tenterò mai più di avvicinarlo, che non posso e non voglio riconquistare la sua simpatia e tantomeno abusarne. Mi basta che sappia che gli son grata. … Prima ero nella lotta e combattevo per istinto, ora vedo, so, mi spavento e darei la testa nel muro. È quella benedetta donna che esagera in tutti i sensi, si capisce. Ma è sincera sempre nel male (anche troppo!) e nel bene.

 

   Il rapporto epistolare ed editoriale fra Mondadori ed Emilia Salvioni si chiude così. Certo quest’ultima lettera dice molto su come l’editore dovette acconsentire obtorto collo alla pubblicazione, e che solo la presenza viva di Emilia dovette muoverlo a rassegnarsi ed a fare un pessimo affare, secondo l’espressione di Moretti. Ma, limpida e onesta, su tutto si eleva la figura di Emilia, sincera sempre, nel male e nel bene.

   I nostri anni migliori è un romanzo che presto viene scordato e dietro al quale certamente non ci aspetteremmo l’esistenza di una testimonianza così sofferta, così difficile come questo carteggio, il quale alla fine diventa come un’opera a sé, va ben oltre l’altra opera che appassionatamente difende. L’alternanza delle veline dattiloscritte di Mondadori e dei fogli riempiti con grafia a mano da Emilia è un documento umano, non rivela soltanto la bella vena della Salvioni epistolografa.

   Molti anni dopo, anziana, Emilia disse di sé: «Io ero molto fiera e piena di bellicosi propositi, rinunciai quindi alle profferte del buono e bravo editore e volli scrivere a modo mio ch’era, credevo, un modo indipendente e personale».[6] Non si sa chi sia l’editore cui Emilia si riferisce, forse non è neppure una persona precisa quanto un’immagine astratta, ma certo è che questo carteggio con Mondadori spiega bene quella dichiarazione di tanti anni dopo: risulta alla fine essere anche il documento di una crescita dell’indipendenza artistica, oltre che una testimonianza morale.

 

 Carlo Caporossi

  

NOTE

[1] E. Salvioni, Angeliche colline, a cura di A. Arlsan Veronese e Id., Lavorare per vivere,  a cura di P. Artuso, Milano, Guerini e Associati, 2003.

2 Tutte le lettere di Emilia Salvioni ad Arnoldo Mondadori, e viceversa, qui riportate, sono conservate nell’ Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Archivio storico Arnoldo Mondadori Editore, Fondo Arnoldo Mondadori, fasc. Emilia Salvioni.

3 Marino Moretti ad Aldo Valori, 22 gennaio 1932, lettera autografa. Per gentile concessione di Amalia Corrà, nipote di Emilia Salvioni, proprietaria del manoscritto.

4 Pietro Pancrazi a Peppino Dore, 17 dicembre 1931, lettera autografa. Per gentile concessione di Amalia Corrà, nipote di Emilia Salvioni, proprietaria del manoscritto.

5 «Almanacco della Donna Italiana», a. XVI, 1935, p. 222.

6 Dichiarazione di Emilia Salvioni riportata in IV di copertina di Emilia Salvioni (1895-1968) Una scrittrice ritrovata, Pieve di Soligo 2002.

 

VICTORIA SURLIUGA, RICE UNIVERSITY

EMILIA SALVIONI. ANGELICHE COLLINE LAVORARE PER VIVERE

DA “ITALIAN BOOKSHELF” ANNALI D’ITALIANISTICA N. 22 (2004)

Emilia Salvioni (1895-1968) nasce a Bologna da genitori veneti originari di Pieve di Soligo, il paese dove poi vivrà per molti anni. Tra le prime scrittrici di professione nel panorama della letteratura italiana del ventesimo secolo, conciliò per molti anni questa attività con il lavoro di bibliotecaria presso l’Istituto giuridico di Bologna. Collaborò con diverse case editrici, quali Mondadori, Cappelli, SEI, SALES e scrisse anche molti interventi su quotidiani, da racconti brevi ed elzeviri fino a commenti più ampi.

Di questa autrice non si è ancora parlato molto, ma attorno alla sua figura si sta creando un certo consenso critico. Il suo archivio è stato donato dagli eredi al Comune di Pieve di Soligo (Treviso), che sta facendo un meritorio lavoro di informatizzazione di tutto il materiale, e ha promosso la pubblicazione, presso la casa editrice Guerini e Associati, di due volumi, rispettivamente del 1941 (Lavorare per vivere, Istituto di propaganda Libraria) e del 1968 (Angeliche colline, Rebellato).

In Lavorare per vivere Emilia Salvioni narra le vicende di due sorelle, Angelica e Maddalena Urban. Alla morte del padre, scoprono che il loro lascito si riduce a debiti e che sarà necessario, per evitare di essere mantenute a spese dei lontani parenti, “lavorare per vivere”. Questo romanzo descrive la crescita interiore delle due donne, la loro acquisizione di forza e la parallela comprensione che il loro stato borghese non è un vantaggio, ma spesso un impedimento. Nel corso del romanzo si assiste al passaggio da un mondo in cui le donne nata in una buona famiglia devono per forza legarsi a degli uomini loro pari, ad una serie di circostanze storiche per cui la dote e la nascita divengono fattori di molto minore rilievo. mentre ad Angelica Urban era stato impedito il matrimonio con Antonio Dalla Paula, alla giovane protetta di lei, Lori Ressi, non verrà infatti impedito di formalizzare il suo legame con il figlio di lui, Sergio.

       Le due sorelle capiscono che il mondo sta effettivamente cambiando. La Salvioni situa la loro vicenda ad un punto di svolta. Angelica e Maddalena rappresentano la generazione passata, messa a confronto con quella della giovane Lori, per la quale sembra che si stiano aprendo maggiori opportunità di realizzazione personale. Inizialmente, Angelica e Maddalena non sanno gestire il conflitto tra gli sviluppi sociali e l’educazione che hanno ricevuto: “Sono le leggi della colpa e della vergogna”. Pur sapendo che “la vita non è una favola con la morale”, le due donne si pongono il dubbio sul tipo di mondo che si avrebbe se tutte le donne conoscessero “il segreto di Lori”, ovvero dell’emancipazione femminile.

       Sulla stessa compostezza morale di Lavorare per vivere si basa la raccolta di elzeviri autobiografici, Angeliche colline. Qui vengono delineati i momenti più difficili che segnano la vita della Salvioni. Si parte dalla morte della madre, che la pone in una situazione solitaria sia all’interno della famiglia che nei confronti della società, per cui alla bambina sarebbe necessaria una protezione nelle mura domestiche. Il padre, professore universitario, si rivela invece troppo preso dai suoi studi per capire le esigenze di una bambina che sta crescendo. Lei, tuttavia, nonostante il padre non sia particolarmente attento alle sue esigenze pratiche, si sente protetta dal rapporto intellettuale che viene a crearsi con lui. Questo legame, però, sviluppato all’interno del “domestico Olimpo”, la rende diversa dagli altri bambini e incapace quindi di avere un dialogo o di poter giocare con loro. La sensazione di alienazione di Emilia inizia durante gli anni dell’infanzia: ”Quando, diventata grande, ho voluto mescolarmi ai giuochi degli adulti, mi sono accorta che anch’essi mi accoglievano nei loro gruppi soltanto in apparenza. Ho finito quasi sempre col tirarmi da parte e restarmene sola”.

       Il limite della Salvioni, o per meglio dire del personaggio di se stessa da lei proiettato nei suoi scritti, sta nel non riuscire a superare un certo cupo buonismo, unito all’eterno “problema esistenziale” della scarsa stima di sè. Per quanto cresciuta in un ambiente familiare liberale, culturalmente illuminato, la Salvioni ne mette bene in evidenza i pregiudizi borghesi, come ad esempio quelli del padre e della sorella nei confronti della condizione sociale inferiore del padrino di Emilia. La Salvioni ricorda gli zuccherini che questi era solito regalarle: “un ricordo dolce della sua botà e della sua umiltà, di cui i miei occhi innocenti avevano scoperto il valore prezioso nell’anima dell’uomo di nessun conto”. Se questo esempio mette in luce una certa condiscendenza non risolta, in un esempio successivo la Salvioni riesce a crearsi ulteriori problemi riguardo allo sviluppo della sua stima di sè. In “La scuola”, descrive come da piccola venisse considerata geniale per il fatto di essere  già in grado di leggere e scrivere durante la scuola preparatoria. gradualmente, dopo il primo anno delle elementari, la piccola Emilia scopre che le cose non sarebbero continuate con la stessa facilità, concludendo: “Le vicende della mia vita, fra glia lati e bassi, furono tali, che non riuscii mai più a riconquistare l’alto concetto di me che avevo posseduto tra i tre e i sei anni”. Una simile osservazione si trova anche ne “La vela”, dove un ragazzo che conduce una barca a vela osserva: “Pare impossibile, come la signorina monta in una barca, così cade il vento”. Alla sua battutta, la Salvioni annuisce, ma la trasforma subito, pensando ad “alcune navi metaforiche, sulle quali ero salita con ardore ed entusiasmo, a prezzo di sacrifici, durante gli anni, e sempre avevo visto cadere il vento”.

La modernità della Salvioni, nel riportare questi episodi, sta nel non generalizzarli alla condizione femminile bensì nel tenerli legati alla propria esperienza autobiografica. E’ proprio perchè si astiene dal parlare a nome delle donne che la Salvioni può parlare come “una donna”, per citare il titolo dell’autobiografia di Sibilla Aleramo. In lei si sente la forza redentrice di una scrittura in cui l’intelligenza narrativa fa superare la frustrazione di non aver compiuto, nella vita, esattamente quanto si sarebbe auspicato.

IL GAZZETTINO DI TREVISO  
 DOMENICA, 7 MARZO 2004  
ALLA PROFESSORESSA ANTONIA ARSLAN,…

    Alla professoressa Antonia Arslan, dell’Università, va riconosciuto il merito di far riemergere dalla “galassia sommersa” scrittrici di spessore, inspiegabilmente dimenticate.
    E’ il caso di Emilia Salvioni /1895-1968) di origini venete-visse tra Bologna e Pieve di Soligo- autrice di romanzi ,racconti, biografie, libri per ragazzi.
   Nell’introduzione ad una delle opere ora riproposte, “Angeliche colline” (Edizioni Angelo Guerini e associati), una raccolta di elzeviri che la Salvioni pubblicò sul “Resto del Carlino” e sull’”Osservatore Romano”, Antonia Arslan parla con entusiasmo di “una scrittrice-e una donna- tutta da riscoprire.  
    Una personalità che nasconde dietro squisite maniere e un garbo d’altri tempi, una tempra d’acciaio e la capacità di dar voce ad alcuni dei personaggi femminili più intriganti della letteratura del Novecento veneto”.  
    Nel libro la Salvioni ridisegna, con scrittura sciolta ed efficace, venata di ironia, momenti, riti, figure legate alla sua infanzia di bambina orfana di madre,triste e sola: “Non si era mai sentita così spietatamente l’assenza di chi potesse occuparsi di noi (aveva una sorellina) con intelletto d’amore”.  
    Si rifugia nella lettura:”E venne il giorno in cui un libro non fu più per me un deposito di parole, ma un mondo, un paese inesplorato, una vita di creature, il più grande e stupendo di tutti i giocattoli”.  
    Del resto “i libri costituivano tutto ciò che mi mancava: una mamma, compagni della mia età, giuochi e risate, corse all’aria aperta”.  
Attraverso pagine intense fissa immagini rimaste indelebili nella sua mente: i bambini che la tenevano in disparte, i suoi viaggi solitari di “esplorazione”, il fringuello accecato perché cantasse meglio, l’asino “bizzarro”, il rito del bucato, dei “cavalieri”, della vendemmia.
    Non dimentica l’odore del mosto e delle arance, “simbolo” del teatro che frequentava da piccola.  
    E figure, come quella del padre, professore all’università di Bologna, che “usava applicare le grandi teorie sociali ai piccoli eventi della vita quotidiana”, del padrino che le portava gli zuccherini, della contessa che anche se spogliata di tutti i beni,manteneva la sua dignità.  
    Un monda lontano, del quale molti lettori possono riconoscersi protagonisti.

    Maria Pia Codato

IL GAZZETTINO DI TREVISO
SABATO, 28 FEBBRAIO 2004
 
ANGELICHE COLLINE DI EMILIA….

Emilia Salvioni (1895-1968) è stata una delle maggiori rappresentanti della letteratura femminile del ‘900.  
    Una donna e una intellettuale tutta da scoprire, figlia di una famiglia aperta al mondo, con solide basi nel Trevigiano, e che le ha offerto la possibilità di vivere con grande aderenza i movimenti letterali e sociali che hanno innervato il Novecento.  
    Ed è merito di Antonia Arslan se oggi abbiamo la possibilità di riscoprire quest’autrice.  
    Nel libro Salvioni racconta un’Italia che sicuramente non c’è più, ma che offre buoni sentimenti e seduce il lettore.  
    Piccole, sensibili e colorate pennellate per raccontare il mondo che vuole mantenere le proprie tradizioni.

 

L’AZIONE   12/10/2003
LE ANGELICHE COLLINE DELLA SALVIONI  
“Cesellatrice di elzeviri”.

Così Antonia Arslan ha definito Emilia Salvioni, ponendola alla pari di Giovanni Com’isso, Guido Piovene, Manara Valgimigli e Concetto Marchesi.
    L’abbiamo conosciuta solo da poco, poiché la sua scrittura, come quella di altre autrici dell’Ottocento  e del Novecento, appartiene a quella “galassia sommersa” nella quale vivono, da sconosciute, romanziere, giornaliste, novellatrici e apprendiciste; donne snobbate dalla critica, quindi dall’editoria e mai entrate nell’orbita della notorietà letteraria.  
    Eppure a leggerla si ha subito la percezione di essere di fronte ad una scrittrice di talento, che sa osservare il mondo e trasporne gli elementi in pagine alte, deliziosamente accattivanti.  
    Grazie all’assessorato alla cultura di Pieve di Soligo e a sponsor privati, Emilia Salvioni, per metà pievigina, per metà bolognese, si affaccia ora,a trentacinque anni dalla morte, sul palcoscenico librario e con le due opere fresche di stampa –Angeliche colline Lavorare per vivere- ci appare sotto le luci della ribalta con una bravura incontestabile e con quella tipica caratteristica dello scrittore veneto che sa cogliere anche nelle minute cose in apparenti della natura e degli uomini lo spunto per trattare delle grandi cose della vita.  
    Abbiamo avuto l’opportunità di leggere solo Angeliche Colline (l’altro libro aspetterà le notti d’inverno) e già dai primi brani ci è piaciuto lasciarci prendere dalle descrizioni dei tempi e luoghi altri rispetto a quelli attuali per ritmo e fisionomia,ma suscitatori di analogie e ricordi riconducibili a un passato comune a noi lettori di qui e perciò gradevolmente riconoscibili .
    “La vita di campagna e quella di città- annota la Arslan- sono dovunque descritte con minuziosa, affettuosa attenzione, ma senza traccia di retorica, di pittoresco convenzionale o di colore locale; piuttosto appare evidente che il tema unificante dell’intera raccolta riflette quella disposizione profonda dell’anima veneta a raccontare con gusto disteso e giusta misura, a sondare i caratteri strambi e ritrosi, gli umili affetti, la vita semplice, la cultura vissuta come intimo abito mentale”.  
    
Angeliche colline è una raccolta di ventisei elzeviri, “pezzi” che un tempo, e qualche volta anche adesso, rappresentavano l’articolo principale della rubrica letteraria, pubblicati in genere nella prima colonna della mitica terza pagina del giornale.
  
  Emilia Salvioni li scriveva per narrare ciò che di solenne e di minimo le stava intorno e per dare ai suoi lettori, attraverso una severa analisi introspettiva, il senso della gioia e della fatica dell’esistere.

Elvira Fantin  
 

 

IL GAZZETTINO DI TREVISO
VENERDI’, 26 SETTEMBRE 2003

LE DUE GRANDI DONNE DI PIEVE  
Appuntamenti stasera in auditorium e domani al “Fabbri”

Pieve di Soligo

Emilia Salvioni (1895-1968) e Marta Sammartini (1900-1954): queste due figure femminili di grande rilievo nate nello stesso periodo, amiche tra loro e profondamente legate a Pieve, capaci di una presenza attiva e di un contributo originale nella vita culturale della comunità pievigina caratterizzano altrettanti appuntamenti culturali di prestigio in programma a Pieve di Soligo oggi e domani.  
    Sono due personaggi che arrivano sino a noi con un messaggio molto attuale di promozione e di valorizzazione del ruolo femminile nella società ha osservato l’assessore alla cultura, Pierangelo Gobbato, illustrando le iniziative promosse dall’amministrazione comunale.  
    Due opere di Emilia Salvioni di nuovo in libreria: è questo il titolo della serata dedicata alla famosa scrittrice pievigina per la quale si è costituito un Archivio in Biblioteca, che si terrà nel nuovo auditorium venerdì 26 Settembre, alle ore 20.30.  
    Con interventi di Atonia Arslan, Carlo Caporossi, Patrizia Artuso, Federica Benedetti e Maria Feltrano sarà presentata la riedizione dei volumi “Angeliche colline e “Lavorare per vivere” scritti dalla Salvioni.  
    Quindi, domani, sabato, alle 16.30, nelle sale espositive del Centro di cultura F.Fabbri-Villa Brandolini di Solighetto sarà inaugurata la mostra Sculture dedicata a Marta Sammartini.  
    Introdurrà l’evento il professor Nico Stringa, curatore della monografia Marta Sammartini sulle opere dell’artista(edizioni elzeviro).  
    Talento precocissimo, donna di grande sensibilità e di profonda e vasta cultura, con le sue opere di Marta Sammartini partecipò a numerose esposizioni e più volte alla Biennale di Venezia.  
    Proprio in questa città lavorò molto, ma il suo studio preferito rimase quello di Pieve.  
    La mostra rimarrà aperta sino al 26 Ottobre.

Marco Zabotti  

 

EMILIA SALVIONI:
UNA SCRITTRICE DA RISCOPRIRE

di Patrizia Artuso

da "Il Flaminio cultura. Rivista di studi della Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane", 
n. 14 aprile 2003, Godega di Sant'Urbano (TV), 2003

Questo breve saggio ha lo scopo di portare all’attenzione dei lettori l’opera di una scrittrice bolognese che la critica  e il pubblico hanno troppo presto e, a mio parere, ingiustamente dimenticato.
    L’attività letteraria di Emilia Salvioni si svolse in un arco di tempo piuttosto ampio: dal 1922, anno della pubblicazione del suo primo romanzo, continuò ininterrottamente a pubblicare romanzi, novelle e articoli su numerosi quotidiani e riviste. In oltre quarant’anni di intensa attività letteraria la Salvioni diede alle stampe una ventina di romanzi per adulti e quasi altrettante opere per ragazzi. Diversi romanzi riscuoterono un discreto successo di pubblico e qualificati consensi da parte della critica e alcune opere ottennero premi letterari o segnalazioni significative, come “Danaro”, “Lavorare per vivere” (premiato al concorso La Scuola Italiana Moderna), “Intanto Erminia…” (premio Manzoni).
    Nacque a Bologna il 2 aprile 1895.
    La madre, Rosa Schiatti, morì precocemente quando Emilia aveva solo due anni e la sua assenza fu all’origine del senso di malinconia e di solitudine che accompagnarono la scrittrice per tutta la vita.
    Imparò la legge a soli tre anni su un libro delle avventure di Pinocchio, quando la sorella e una cugina l’avevano scelta come allieva per giocare alle maestre. Da allora i libri furono i compagni di gioco e il rifugio di una bambina di indole timida e introversa, ma dotata di una spiccata e vivacissima fantasia.
    La famiglia della madre, appartenente alla media borghesia veneta, era originaria di Pieve di Soligo: qui il nonno materno, Antonio Schiratti, aveva una farmacia, dei cui scaffali polverosi e della curiosità che provava per essi da bambina, la scrittrice conservò un commosso ricordo.
    Lo Schiatti, per lungo tempo sindaco di Pieve di Soligo, era un uomo di idee liberali e progressiste e la sua farmacia,secondo la consuetudine ottocentesca, era divenuta un luogo di ritrovo e di animate discussioni politiche e culturali.
   “E non erano solo chiacchiere di farmacia (…) il nonno credeva nel progresso, cioè nella provvidenza di Dio e nella buona volontà degli uomini.”
    Il padre, Giovanni Battista Salvioni, era docente di Statistica all’Università di Bologna. Il suo interesse per questa materia estremamente tecnica non contrastava però con il suo carattere gioviale: amava la letteratura, in particolar modo la poesia ed egli stesso scriveva versi.
   Nell’ultimo  periodo della sua vita si dedicò alla poesia dantesca, di cui era un profondo conoscitore; e quando la cecità gli impedì di leggere personalmente, le due figlie leggevano per lui.
   La figura paterna fu molto importante nella vita della scrittrice.
   Dal padre, insieme all’amore per lo studio, derivò quello stesso umorismo sottile che emerge in molti suoi racconti, velato spesso da una tenue ironia.
   Una sorella della madre, Maria Schiratti, aveva sposato Giuseppe Toniolo, uno dei più grandi rappresentanti del pensiero cattolico-sociale del tempo.
   L’educazione della giovane Emilia fu improntata a solidi principi morali, in un ambiente profondamente cattolico.
   Le dolorose esperienze della sua vita le diedero un senso di amarezza e di frustrazione, mitigato però dalla sua profonda fede. Tuttavia va detto che la fede non fu solo il frutto dell’educazione che ricevette: fu qualcosa di maturato e cosciente che non le impedì una lucida visione della vita e delle sue difficoltà.
   Forse l’attenzione ai problemi sociali che emerge nelle sue opere si può mettere in connessione con l’ambiente in cui visse , ma, più probabilmente, tale interesse derivava dalla sua stessa sensibilità e dal profondo senso di giustizia e di umanità che la portava a guardare, aldilà degli schemi della società in cui viveva, al valore profondo della persona umana.
     Cominciò a scrivere molto presto, versi, novelle e romanzi.
    Nel 1940, in un’intervista pubblicata su “Parola e Libro” la scrittrice disse di se stessa:
     “Mi sembra di essere nata con l’idea di diventare scrittrice; certo non dovevo avere più di otto anni quando proposi a mio padre uno pseudonimo che avrei portato da grande, in veste di letterata”.
     Dal 1923 circa fino al 1958 collaborò a “L’avvenire d’Italia” sulle cui pagine pubblicò in appendiceli primo romanzo “Prima che ritorni li sole” e il secondo “Quella che aspettavo sei tu”, ambedue con lo pseudonimo di Marina Vallari.
    Dopo la prima guerra mondiale e la morte del padre, la necessità di fonti di guadagno sicure la spinsero a pensare di partire per l’Inghilterra dove trovare lavoro come istitutrice, poiché non aveva titoli di studio validi per esercitare l’insegnamento in Italia, ma fu dissuasa dalla sorella.
    Per interessamento dei colleghi del padre all’università di Bologna, le fu offerto l’incarico di dirigere la biblioteca dell’Istituto Giuridico.
    Negli Anni Venti cominciò a dedicarsi alla letteratura per ragazzi, pubblicando racconti e poesie su “Il corrierino”, settimanali per bambini edito a Milano dalla Casa Editrice Cardinal Ferrari.
    Nel 1926 pubblicò il primo romanzo per ragazzi “Marialù e i suoi amici” e nel 1927 “Oreste    Grantesta burattinaio”.
    La Salvioni si dedicò alla letteratura per ragazzi e per l’infanzia con grande impegno e profonda serietà; alcune delle sue opere, in particolare “Bambini cattivi”, “La squadra dello Scoiattolo” e “Cioccolato Caramelle”, rivelano nella scrittrice una reale capacità di parlare ai ragazzi con il linguaggio più adatto a loro, in modo da coinvolgerli e trascinarli in un divertimento che non è mai fine a se stesso, ma che è sempre accompagnato da un fine educativo.
    Nel 1934 pubblicò il romanzo “Danaro” che fu segnalato nel concorso bandito all’Accademia Mondatori e nel 1937 “I nostri anni migliori”, opere con le quali riscosse un discreto successo.
    Collaborò periodicamente a varie riviste tra cui: “Il Solco”, “Rassegna Nazionale”, “Fiamma Viva”  pubblicò articoli su diversi quotidiani come “L’osservatorio Romano”, “L’Italia”, “Il Popolo”.
    La vastissima produzione giornalistica della Salvioni si rivela molto interessante, sia per l’eterogeneità degli argomenti trattati- la quale peraltro rivela la molteplicità degli interessi della scrittrice che spaziano dalla storia alla critica letteraria o artistica- sia per il taglio vivace e sobriamente elegante con cui la Salvioni sa costruire i suoi articoli.
    Alcuni di essi, a sfondo autobiografico, sono particolarmente interessanti non soltanto per la suggestiva atmosfera, lievemente malinconica, da cui sono pervasi, ma anche e soprattutto perché contribuiscono a far luce sulla personalità della scrittrice.
    Pubblicò racconti e novelle su varie riviste, ma in particolare su “Alba” a cui collaborò con una certa regolarità nel periodo che va approssimativamente dal 1944 all’inizio degli anni Sessanta.
    Generalmente si tratta di novelle relativamente brevi in cui compaiono pochi personaggi.
    Alcuni motivi si ripetono con una certa frequenza: personaggi e situazioni presentano poche varianti, aspetto che rivela indubbiamente la necessità da parte della scrittrice di attenersi a schemi prestabiliti entro i quali far muovere i suoi personaggi. Alcuni di essi tuttavia sono delineati in modo particolarmente efficace: ben riuscita è la figura del padre nella novella “Berretto rosso” del 1950, il quale prova un affetto così geloso ed esclusivo per la figlia da non accorgersi , come spesso accade, che gli anni sono passati e che la sua bambina desidera ora mettere da parte il vecchio berretto rosso, simbolo di un’infanzia gioiosa, ma ormai passata, per indossare un cappellino alla moda.
    Un indubbio pregio della produzione di novelle va rivelato inoltre nella scioltezza dello stile, la cui fluidità è accentuata spesso dalla necessità di tralasciare, per ragioni pratiche di spazio,le divagazioni che, anche se eleganti, talvolta possono appesantire lo stile di alcuni romanzi.
     Un discorso a parte va fatto a proposito di “Angeliche Colline” pubblicato postumo nel 1968 dalla casa editrice Rebellato. Si tratta di una raccolta di elzeviri pubblicati, salvo qualche eccezione, su “L’avvenire d’Italia” fra il 1928 e il 1939.
    Il filo conduttore che unisce i vari racconti è quello del ricordo: la Salvioni rievoca infatti episodi, usi e modi di vivere propri di un passato ancor vivo nella sua memoria.
    In un articolo pubblicato su “Il Resto del Carlino” nel 1969, ad un anno di distanza dalla morte della scrittrice, Gaetano Arcangeli rilevò la forza, il colore e l’eleganza del brano che apre la raccolta, dal titolo “Il bucato”:
     “Qui la vicenda del bucato nelle case di campagna di un tempo si risolve (…) in una rappresentazione epico-paesistica di tale estro e colore ( ma di un colore vero, non arbitrario ed effettistico) d sopportare la più sicura ed illustre delle firme”.
     E richiamandosi al giudizio della giuria che assegnò a “Intanto Erminia…” il premio Manzoni, rilevandone lo stile asciutto, “grigio” e pacato, aggiunse:
    “E chi potrebbe più riconoscere quel grigio e quella pacatezza, nel colore e nella forza di improvviso che ci investono, come una folata di quei venti, di quelle piogge e di quelle atmosfere mosse e mutevoli, dalla scena e dal ritmo di questo straordinario ‘Bucato’?.
 I racconti in cui la Salvioni rievoca momenti della sua infanzia sono particolarmente suggestivi: molto bello è “Le bambole”, in cui richiama alla memoria i suoi giochi infantili ed il senso di vuoto e di freddo che le dava la bambola che veniva custodita gelosamente in un cassetto, “la bambola morta”, quella per la quale la madre aveva cucito un vestito, compiendo così uno dei suoi ultimi lavori. In questi racconti compaiono la figura del padre, della governante Erminia, del nonno materno e di personaggi legati a momenti dell’infanzia, visti con gli occhi commossi di chi si rivolge al passato con rimpianto, ma senza che questo sentimento tolga nitidezza e forza espressiva alla rappresentazione.
    Qua e là affiora quel sottile umorismo che caratterizza la Salvioni: molto arguto e vivace è il brano “L’asino” in cui, rievocando gli avventurosi viaggi in calesse con il padre, ella controbatte con fine ironia l’opinione comune secondo la quale l’asino è un animale mite e paziente, dipingendolo invece come caparbio, ostinato e dotato di una subdola astuzia.
    Senza dubbio “Angeliche colline”, oltre a rivelarsi un’opera preziosa poiché contribuisce più di ogni altro scritto ad illuminare la personalità dell’autrice, ci offre alcune tra le sue pagine più belle e poetiche.
    Continuò a dedicarsi alla narrativa e all’attività giornalistica fino all’anno della morte che avvenne a Bologna il 14 giugno 1968.
    L’ampiezza e l’eterogeneità della produzione letteraria della Salvioni non permette in questa sede un esame completo della sua opera. Ritengo  opportuno perciò soffermarmi più approfonditamente sui romanzi.
  Non tutti hanno il medesimo valore: la scrittrice stessa era consapevole dei limiti delle sue opere, in particolare i primi due romanzi, ma altri, come “Lavorare per vivere”, “I nostri anni migliori”, “Romanzo di un’osteria” e in particolare “Intanto Erminia…” sono opere di grande rilievo.
    La prosa della Salvioni colpisce innanzi tutto per la capacità descrittiva che la scrittrice rivela nel delineare i personaggi, per la vivacità e la finezza psicologica con cui essi vengono tratteggiati: non soltanto i protagonisti dei romanzi, la cui caratterizzazione trova ampio spazio nell’opera, ma anche, sorprendentemente, i personaggi minori, di contorno, che, da semplici comparse, si stagliano invece vivissimi nello spazio di poche righe.
    Sono piccoli particolari del loro modo di vestire o di parlare, un intercalare frequente, il modo di muoversi, a disegnarli in modo così nitido da imprimerli nella memoria del lettore.
    Molto suggestiva è la rievocazione del mondo contadino, gli usi  e i costumi di un tempo passato di cui la scrittrice era stata testimone nell’infanzia, quando trascorreva le vacanze nella casa di Pieve di Soligo.
    Un mondo che non viene mai idealizzato nel ricordo, ma rappresentato nei suoi aspetti più comuni, una vita scandita dal lavoro stagionale nei campi, dalle feste religiose.
    Il mondo rurale viene descritto in modo concreto, non retorico o stereotipato, nonostante, soprattutto nelle descrizioni dei paesaggi in “Lavorare per vivere” o in “Romanzo di un’osteria”, traspaia il profondo amore della scrittrice per la campagna. Un amore che si sente ogni volta che la Salvioni si sofferma su un particolare, apparentemente casuale, di una pianta o del cielo, così diverso nelle varie stagioni dell’anno.
Particolarmente belle sono le descrizioni degli interni, non solo le case dei contadini, ma anche i salotti delle famiglie della piccola borghesia, modesti, ma con qualche velleità di eleganza,  e gli ambienti più raffinati.
    Questo rivela a mio parere un fine ed acuto spirito di osservazione ed una notevole capacità di calarsi-e far calare il lettore- nel mondo che ricrea nelle sue pagine.
    A volte leggendo non solo romanzi di ampio respiro, ma anche brevi novelle, si ha l’impressione di essere accompagnati all’interno delle stanze, nei luoghi dove vivono i personaggi: si apre così la porta delle ampie cucine delle case di campagna con il focolare acceso e si possono sentire gli odori dei cibi che vengono preparati o ci si può sedere nel salotto buono, accanto alle signore in visita la domenica.
    La scrittrice sa dipingere la vita di paese, con le sue consuetudini e suoi rituali, in modo esemplare:
     “Di rado le signore perdevano l’occasione di accompagnare il marito in timonella quando egli andava con quel mezzo per i suoi affari.
    Mentre l’uomo accudiva a questi, la signora faceva un giro di visite.
    A cominciare dalle otto della mattina si riceveva nei tinelli nitidi e ordinati, continuando a sferruzzare.
    Quel giro era lunghetto, perché il buon gusto imponeva di non trascurar nessuno e la borghesia paesana era rappresentata da un bel numero di famiglie.”
     L’abilità della  Salvioni nel ricreare l’atmosfera dei borghi di campagna e il realismo con cui ne coglie lo spirito furono rilevati da Stefano Nemo in un articolo pubblicato nel 1941 su “Il Popolo del Friuli”, dove “Lavorare per vivere” fu avvicinato a “Piccolo mondo antico” del Fogazzaro per la vivacità della pittura di ambiente e la fedeltà della rievocazione della vita paesana di fine Ottocento.
     Certe descrizioni di interni reggono il confronto con la vivacità di alcune pagine del Nievo, basti pensare all’animazione della cucina della santola Catina, nel giorno della sagra:
     “Un contadino e un ometto di quel ceto che, nel gergo locale, veniva definito una ‘mezza velada’grattavano metodicamente il parmigiano.
    Un vecchio intento agli spiedi raccoglieva con gesti rituali i sughi nelle leccarde e li spargeva sui polli giovani e sugli uccellini che, ad ogni giro, piegavano tutti insieme le testoline appuntite.
    Lì dentro c’era più allegria che in tutta la sagra e più fervore che in un campo di battaglia, benché mancasse un’ora e mezza al desinare”
    Nella descrizione degli ambienti cittadini la Salvioni mostra un prediligere il mondo della piccola e media borghesia, ricco di tradizioni,pregiudizi e diffidenze e sa dipingere con grande efficacia la vita di provincia, abitudinaria e monotona.
    Il romanzo “Pietro Ventura”, del 1938, è ambientato a Bologna, la città dove la scrittrice trascorse gran parte della sua vita e in quella stessa città è ambientato, nella pria parte, anche “Intanto Erminia…£ dove, nel rievocare l’infanzia e la giovinezza della protagonista, la Salvioni si sofferma a descrivere i portoci e le vie strette del centro, piene di animazione nei giorni di festa:
     “La sonnolenta monotonia dei giorni laboriosi era interrotta di frequente dalle feste cittadine.(…) In quei giorni di calura assolata, le strade, di solito imbronciate e taciturne, si abbandonavano a un’estasi di giubilo. Fra i porticati freschi di nuovo intonaco, con i pianciti tirati a lucido, con le piante verdi ad ogni arcata, sventolavano sul turchino fondo del cielo, i ‘zendali’ a festoni bianchi, rossi, turchini, gialli.(…)Erano sagre parrocchiali in cui i cittadini amavano spiegare tutta la magnificenza di cui eran capaci e duravano fino a notte.
    S’improvvisavano caffè all’aperto, in vicinanza del palco, dove la banda suonava i ‘pot-pourri’ del Barbiere e della Sonnambula, ed Erminia sedeva compostamente fra i genitori ad un tavolo.
    Il cameriere le portava un sorbetto da un baiocco e il sonno l’aggravava a poco a poco, in mezzo al frastuono.
    Nel descrivere gli interni la Salvioni si mostra molto accurata e meticolosa: quasi sempre, nella evoluzione della vicenda, apre delle parentesi descrittive che rivelano in lei il gusti e la cura del particolare. Molto spesso la collocazione spaziale del personaggio è significativa per conoscere il suo mondo interiore,la sua psicologia.
     La casa di Ginevra ad esempio, nel romanzo “Pietro Ventura”, con il suo lusso raffinato, ma insieme esagerato e pomposo, rivela non tanto il gusto per gli oggetti preziosi ed eleganti, quanto l’esigenza di ostentare la propria ricchezza, anche al punto di trasformare la casa in una fredda ed anonima esposizione di ricchissimi oggetti dagli stili più svariati:
     “Ginevra aveva frugato i magazzini degli antiquari più in voga, aveva voluto ‘tutto autentico’.
    I mobili bolognesi del seicento che aveva scelto per la sua stanza da pranzo erano allora una rarità. Aveva trovato specchiere e placche veneziane per il salotto e quadri di varie scuole, tutti mediocri, ma con cornici costose. C’erano parecchie nature morte, una scena sacra e due o tre ritratti, tra cui quello di un cardinale. Per prudenza Ginevra non aveva messo i ritratti troppo in vista. Ma in vista erano i cassoni di nozze scolpiti e certi maestosi seggioloni e scrigni di pregio. Tutti, per quanto disposti con arte, stavano lì impettiti e sdegnosi, non si fondevano con la vita di chi li adoperava. Fossero o no pezzi da museo,  avevano l’aspetto superboe freddo degli oggetti esposto in un museo.”
    E la casa di Ginevra è solo un esempio che potrebbe essere seguito da una lunghissima serie: questa precisione di particolari rivela nella Salvioni la chiara esigenza di collocare i suoi personaggi in uno spazio ‘reale’, concreto, di dare ad ognuno di essi un palcoscenico  e lo scenario giusto in cui muoversi indica indubbiamente l’accuratezza di chi non lascia al caso nessun particolare.
    Molto efficaci sono le descrizioni degli interni delle case signorili, che rispecchiano il modo di essere e di vivere dei personaggi e il gusto di un’epoca.
    Nel romanzo “Gli amanti veneziani” del 1949 la Salvioni descrive il palazzo nobiliare di una delle protagoniste, Caterina Franzoia, “di buona architettura e ammobiliato lussuosamente”, ma con una sobrietà che rivela una solidità economica basata anche sulla moderazione e sulla parsimonia.
    Ben diverso è il lusso dell’abitazione di Marianna, un’altra delle protagoniste del romanzo, piena di tendaggi, di vasi di ceramica, di tappeti e di oggetti orientali, doni di altrettanti danarosi amanti.
    Due mondi opposti a confronto-quello dell’ordine e della solidità da una parte, quello del fascino della precarietà dall’altra- vengono rappresentati agli occhi del lettore anche attraverso l’arredamento delle case dei protagonisti: il luogo in cui essi vivono diviene così efficacemente l’estrinsecazione del loro mondo interiore.
    Con la medesima accuratezza la Salvioni dipinge anche gli ambienti dove i suoi personaggi lavorano; nel romanza “Carlotta Varzi”, ad esempio, troviamo la descrizione della drogheria dei Rivolta, buia e tetra, con i suoi scaffali disordinati e polverosi. Conosciamo gli uffici della sua azienda, la “Carlotta Varzi S.A.”, che con il loro ordine meticoloso rispecchiano l’efficienza, l’impegno e l’abilità con cui Carlotta sa farsi strada nel mondo degli affari.
    Ne “I nostri anni migliori” incontriamo Lucia che lavora come impiegata in un ufficio, immersa nel mare di lettere che deve scrivere a macchina, intenta a rispondere al telefono e travolta dalla montagna di pratiche che deve sbrigare.
    Con le sorelle Urban, protagoniste di “Lavorare per vivere” entriamo nella scuola di un piccolo borgo di campagna dove i bambini arrivano sino alla terza classe con fatica e raramente finiscono il corso elementare. Una delle due, Maddalena, viene assegnata ad una scuola lontana dal paese, quasi sperduta in mezzo alle colline e si deve occupare in prima persona di rimettere in sesto lo stesso edificio scolastico, lasciato fino a quel momento in balia delle intemperie. Sono descrizioni di sorprendente precisione:
     “Nell’edificio, ch’era stato un umile fabbricato rurale, c’era un’aula sola, con le mura rozzamente intonacate, imbiancate alla meglio molti anni addietro, con le travi del tetto addobbate di ragnatele. In una stanzuccia accanto, cucina e camera da letto, viveva la custode, una vedova poverissima. Mancava la stufa per l’inverno, i banchi erano insufficienti, la lavagna spezzata, gli scolari avevano quasi tutti i pidocchi. Quando Maddalena era arrivata, il vento di autunno, umido e irrequieto, soffiava attraverso i vetri rotti dell’impannate.”
    Alcuni temi ricorrenti in questi romanzi, quello della rinuncia, del sacrificio, della fedeltà al dovere, lungi dall’indurre nel lettore una sensazione di ripetitività e di monotonia, rispecchiano fedelmente il mondo interiore della scrittrice e giocano la loro plausibilità su un sottile intreccio di sfumature e di minime variazioni nel porsi dei personaggi di  fronte alla realtà con cui si misurano.
     La fede cattolica è senza dubbio un dato che non va dimenticato, se rivuole comprendere pienamente l’opera e la personalità della Salvioni: una fede sincera e profonda che si traduce in forza ed in fiducia nel valore della vita; ma è necessario prima di tutto evitare, nell’analizzare la sua produzione letteraria, di attribuirle una visione della realtà falsata da apriorismi ideologici: ella stessa si definì “una scrittrice cattolica”, non volendo certo condizionare la valutazione della sua opera. La fede che la Salvioni trasmise ad alcuni dei suoi più riusciti personaggi non era uno schermo che le impedisse di vedere lucidamente e con occhio disincantato la vita, altrimenti non avrebbe potuto rappresentare ed esplorare in alcuni suoi personaggi proprio l’ipocrisia di chi concepisce la religione come pubblica esteriorità.
     Fra i temi più cari della scrittrice vi è, in primo luogo, il contrasto fra ricchezza e povertà. Molti dei personaggi della Salvioni lottano duramente per vivere e devono affrontare grandi difficoltà: le sorelle Urban in “ Lavorare per vivere”, Stella, protagonista di “Romanzo di un’osteria”, Alba in “Una storia d’amore”.
    Ad accomunare questi personaggi è la grande forza d’animo con cui si affrontano i momenti difficili, anche la povertà: alcuni di essi-le sorelle Urban ad esempio- devono adattarsi ad una nuova condizione benché fossero abituati ad un discreto tenore di vita.
Questi personaggi non si mostrano mai passivi: prendono in mano le redini della loro vita e lottano , spesso contro i pregiudizi e lo scetticismo delle persone che li circondano.
    Angelica e Maddalena Urban non prendono neppure in considerazione l’ipotesi di ritirarsi a vivere nella casa dei parenti dove ‘una scodella de risi’ non sarebbe mai mancata per loro e scelgono di lavorare. Carlotta Varzi, protagonista dell’omonimo romanzo, rimasta vedova, dirige l’azienda del marito e la fa prosperare dimostrando un’energia e un’abilità negli affari non comuni.
     Stella in “Romanzo di un’osteria”, con i suoi sacrifici e la sua tenacia, riesce a conquistare una discreta agiatezza. La stessa Erminia, a cui è dedicato il romanzo più bello della Salvioni, apparentemente in balia degli eventi e rassegnata, non accetta di vivere di elemosina, ma trova un posto come governante.
     Sull’altro versante, chi non ha conosciuto il sacrificio e la povertà a volte accompagna all’agiatezza un’aridità di sentimenti o un’esagerata avidità di denaro. Alcuni personaggi sono spinti da un’irragionevole avarizia fino alla grettezza o sono caratterizzati da una totale mancanza di parsimonia, tanto da sperperare il loro patrimonio al tavolo da gioco.
     Il contrasto tra ricchezza e povertà è tuttavia non si trasforma mai nella facile lezione di morale secondo la quale il denaro non dà la felicità, ma diventa un’esaltazione del senso del dovere, in nome del quale ognuno di noi è chiamato al proprio compito dalla vita e deve saper affrontare le difficoltà con coscienza e dignità.
     Un altro tema ricorrente è quello della solitudine, condizione comune a molti personaggi, una solitudine non tanto materiale, ma interiore, in cui si può senz’altro cogliere un riflesso dell’esperienza personale della scrittrice. Tale aspetto è evidente del resto nella frequente assenza della figura materna, il nume tutelare che avrebbe preservato i protagonisti- ma soprattutto le protagoniste femminili di molti romanzi- da tanti dolori.
     La solitudine dunque accompagna la vita di molti personaggi della Salvioni.
Rimane sola Stella, perché i figli, per il bene dei quali lavora tanto duramente ed ha sacrificato tutto, anche l’amore, se ne vanno. E’ sola anche Erminia, non soltanto dopo aver perso il padre e la madre ed infine anche il fratello, ma anche prima, perché le sue aspirazioni e i suoi desideri erano sempre stati messi in secondo piano dagli stessi genitori, proiettati com’erano verso la carriera ecclesiastica del primogenito. Erminia si era abituata a cancellare se stessa, a rimanere in ombra fin dall’infanzia. La sua è una solitudine rassegnata, percepita come una condizione naturale.
     Strettamente collegato con il tema della solitudine vi è quello dell’amore.
    Sono quasi sempre amori tormentati, spesso mai realizzati, quelli che vivono nei romanzi della Salvioni. A volte nemmeno confessati dagli stessi  personaggi, vissuti sempre più nella potenzialità del rimpianto che nella realtà. All’appagamento dell’amore si oppone quasi sempre la rinuncia, la necessità del sacrificio, uno dei temi  dominanti nella produzione della scrittrice.
    Stella rinuncia all’amore di Arrigo per senso del dovere, per amore dei figli a cui sente di doversi dedicare anima e corpo.
    La ragione, la morale, la coscienza del proprio ruolo hanno la meglio anche in Carlotta Varzi.
    Angelica Urban rinuncia a sposare Antonio per restare con la sorella: antepone la sua decisione di diventare maestra, di “lavorare per vivere”, all’amore, pur sapendo che ‘quella’ era l’ultima possibilità che la vita le avrebbe concesso.
    In tutti i casi quindi domina la rinuncia in nome di qualcosa che si ritiene più alto e più nobile: la morale, l’amore per i figli, il senso del dovere. E la rispettabilità, ma non intesa come un’etichetta esteriore, bensì come unica condizione per la serenità.
    I personaggi creati dalla Salvioni, in particolare quelli femminili, appaiono votati al sacrificio.
    Non sono immuni tuttavia da turbamenti e da rimpianti: se così non fosse risulterebbero poco credibili. A renderli veri, umani, è il dubbio che subentra sempre in ognuno di essi, il pensiero tormentoso di ave rinunciato a vivere una parte importante della vita.
    A salvarli dall’amarezza e dal rimpianto si fa strada a questo punto la profonda e lucida consapevolezza di avere agito per il meglio, di aver fatto del bene: Stella ha assicurato ai suoi figli una discreta posizione e il buon nome, Angelica Urban, rinunciando al matrimonio, spinge Antonio a sposare la donna da cui ha avuto un figlio. La serenità raggiunta dalle sorelle Urban non è la parente povera di una felicità mancata, ma qualcosa di più profondo. Dimostrano di aver compreso il vero significato della vita umana che è degna di essere vissuta in ogni suo momento, anche nel dolore e nel sacrificio, senza mai perdere mai perdere di vista quello che è il fine della nostra esistenza, cioè il bene.
    Ed a questa conclusione profondamente serena e di un ottimismo veramente cristiano, la Salvioni giunge con naturalezza , senza dare l’impressione di seguire una tesi preordinata. Se è vero che gli uomini fanno spesso l’amara constatazione che nella vita è il male ad essere premiato al posto del bene, è vero anche ciò che dice la scrittrice riassumendo in poche parole il significato di “Lavorare per vivere” e cioè che:
     “Malgrado i suoi errori, quasi a tentoni in una penombra fitta di misteri, l’umanità segue il concetto del bene, guidata da un’attrattiva irresistibile.     Questa conclusione è ottimista: meno male che finalmente ho scritto un libro ottimista anch’io…..”
    Quella che la Salvioni offre ai lettori è, in fondo, una lezione di fiducia, di fede nelle proprie capacità di fronte alle prove che la vita ci impone.
    Vi è una netta prevalenza di figure femminili, in queste opere. Emerge l’immagine di una donna orgogliosa, tenace, coerente con se stessa  e con il ruolo che ha deciso di svolgere. Raramente si lascia lusingare da facili soluzioni o da comode sistemazioni. E questo per ogni ambiente sociale in cui si muovono le donne dei romanzi della Salvioni: incontriamo Valeria che vuole affermarsi nella professione medica e lotta contro l’opposizione dei familiari che la vorrebbero relegare ad un ruolo che le sta stretto. Per le giovani di buona famiglia era visto come l’unico fine di una donna e una sistemazione vantaggiosa era l’obbiettivo prioritario.
    Mercedes, un delle protagoniste de “I nostri anni migliori”, incurante dei consigli di tutti, decide di trovare un lavoro per mantenere se stessa e il figlio dopo essere rimasta vedova: se per noi oggi questa può apparire la scelta più naturale, non lo era un tempo e la via di un matrimonio di interesse era senz’altro la più ovvia e facile.
    Carlotta Varzi è una donna tutta di un pezzo, saggia e lungimirante negli affari. Diviene la colonna portante della famiglia e dirige l’azienda del marito, dopo la sua morte, in modo esemplare.
    Stella fa prosperare l’attività dell’osteria, la Giraldina, prendendo sulle sue spalle tutti gli oneri sopportando anche il malanimo della suocera. E’ abile negli affari e nel trattare i clienti, nonostante l’ambiente della locanda potesse favorire situazioni poco piacevoli: il suo senso pratico e la sua semplice dignità sono sufficienti ad incutere negli avventori il dovuto rispetto.
    I personaggi maschili, per contro, rimangono in secondo piano e non reggono il confronto piano e non reggono il confronto con quelli femminili.
    Rivelano spesso un carattere debole, fiacco, a volte si mostrano incapaci di reagire di fronte alle avversità. Molti di essi sono accomunati dall’indecisione e dalla mancanza di fermezza; sono inclini piuttosto a sfuggire le difficoltà e ad appoggiarsi completamente alle loro compagne. Se agiscono con decisione, molto spesso sono spinti dall’orgoglio o da un bisogno di rivalsa, raramente operano in nome di alti principi.
    Le donne al contrario non si tirano mai indietro: possono essere abili donne d’affari, professioniste o anche semplici donne di casa, ma sanno comunque rivelare le loro doti, la loro saggezza e il loro senso pratico, amministrando, ad esempio, con oculatezza i beni di famiglia.
    C’è senz’altro un fondo di femminismo in questo: si afferma il diritto di una donna di conquistare il suo posto nella società mettendo a frutto le proprie doti personali e le proprie capacità.
    Il passo successivo sarebbe stato quello di far nascere in questi personaggi l’energia e il coraggio di combattere anche per la propria realizzazione dal punto di vista sentimentale. Ma ciò non accade, non coincide con la scala di valori in cui queste donne credono: al dovere, all’onore e soprattutto all’affetto per i figli si può e si deve sacrificare prima di tutto l’amore.
    Accanto ai protagonisti, nei romanzi della Salvioni si muove un’ampia schiera di personaggi minori: domestiche, cuoche, istitutrici, governanti, ognuna di esse con la propria particolare fisionomia. Tra i personaggi di contorno spiccano le “vecchie signore”, alle quali è affidato un ruolo marginale nella vicenda, ma che spesso emergono per la loro energia e per la vivacità con cui sono caratterizzate. Uni splendido esempio di queste figure così ben delineate ci è offerto in “Lavorare per vivere”:
     “Quando scendeva alla Pieve di Contigo, la signora Catina di Rovendolo metteva sul vestito una mantelletta ricamata a lustrini neri che aveva portato in dote; la mantelletta, secondo lei, faceva sempre la sua ‘matta figura’ e tutti eran così abituati a vedergliela in dosso che, senza di quella, avrebbero stentato a riconoscerla. Col suo passetto breve andava prima a discorrere di politica con la vecchia madre del farmacista, grande lettrice di giornali; passava poi a confidare certe sue pene alla signora Chiara della casa accanto; riattraversava il paese per abbracciare la giovane sposa del medico e verso le undici si presentava palazzo Falier, dove la contessa le  faceva servire il caffè ch’era sempre pronto a qualunque ora….”
     La ‘santola’ Catina compare in scena per commentare i cambiamenti, i momenti cruciali della vita delle sorelle Urban. Si fa portavoce del ‘coro’, delle opinioni del mondo esterno. Questo suo ruolo è significativo e, a mio parere, in qualche modo è una testimonianza dell’amore che la Salvioni aveva per il teatro: in un suo racconto la scrittrice ricorda di aver provato in coinvolgimento emotivo così forte durante le rappresentazioni teatrali a cui assisteva da bambina, da piangere inconsolabilmente dall’inizio alla fine, suscitando il disagio del padre.
    Oltre alla santola Catina troviamo la signora Pavari de “Gli amanti veneziani”, che trascorre tutti i pomeriggi seduta vicino alla finestra dl tinello ad osservare la società migliore della città che passa per la via; ma senza dubbio, nel panorama dei personaggi minori della  Salvioni, spicca la figura della ‘contessa’ che incontriamo nella raccolta “Angeliche colline”.
    Nello spazio di poche pagine la scrittrice dipinge il ritratto non solo di un’anziana nobildonna , ma del tramonto di un’epoca, del declino di un’intera classe sociale:
     “La palazzina sorgeva in fondo a un giardino triangolare che s’affacciava col vertice sulla piazza.(…)Al tavolino , nelle belle giornate, sedeva la contessa, all’ombra, tra la frescura delle piante. Doveva essere allora sulla sessantina e la sua figura, piccola e snella, era quella di una giovinetta.(..)     Vestiva sempre di nero e portava al collo più giri di perle nere e ai polsi sottili braccialetti d’argento che tintinnavano ad ogni gesto. Un paniere infioccato di nastri stava sul tavolino e la contessa lavorarava all’uncinetto, chiacchierando.
    La contessa non era mai sola sul terrazzino, nessuno dei suoi conoscenti passava per la piazza, senza soffermarsi a salutarla. Di lontano il rialzo ombroso assomigliava a un minuscolo palcoscenico: vi comparivano a vicenda signore anziane e ragazze, vecchi e adolescenti.
    Ne giungeva di continuo un cinguettio confuso di saluti, di complimenti, di risatine e l’intercalare caratteristico della contessa, che rivelava la sua origine dal Friuli orientale ‘Cossa la vol?’.
    I parenti della contessa avevano largamente approfittato della generosità disinteressata dell’anziana signora e, con il tempo, il patrimonio familiare si andava pericolosamente assotigliando, ma ella, con la noncuranza propria del suo rango, non manifestava alcuna preoccupazione. E quando dovette dividere l’eredità, cedendo alla sollecitazioni dei figli, si finse compiaciuta di essere stata sollevata da noie e preoccupazioni:
     “Cossa la vol? Tanti pensieri, tante fatiche….Adesso ognuno ha avuto il suo e tutti insieme mi passeranno una rendita annua. Meglio così, non è vero?”
     Un po’ alla volta, insieme alle porcellane e all’argenteria, se ne andò tutto ciò che era stato il simbolo di un’epoca: la servitù scomparve, le stoviglie apparivano scompagnate, ma la contessa riceveva ancora con la stessa grazia immutabile:
     “Sedeva come al solito al tavolino di pietra e lavorava all’uncinetto, quasi non sapesse come occupare il tempo. Gli abiti neri consumati via via sulla personcina sempre snella: le collane di perle nere, i braccialetti d’argento non riuscivano più a dissimulare la povertà.(….)
Fino all’ultima ora la contessa ebbe sulle labbra l’eroico sorriso e forse l’ultima sua parola fu ancora l’intercalare, simbolo della sua perfetta rassegnazione: “Cossa la vol?”
     Personaggi come la contessa o la santola Catina conferiscono una grande vivacità alla prosa della Salvioni perché non diventano mai dei tipi prevedibili e cristallizzati nel loro ruolo, ma hanno un’individualità ben definita ed una credibilità che talvolta vanno oltre la narrazione e li rendono indimenticabili.
     La lettura dei romanzi rivela la grande padronanza della scrittrice nell’uso del linguaggio.
    Il suo stile narrativo non si può compendiare in una definizione schematica perché è così vario e notevole che, di volta in volta, la lettura di un  romanzo rivela nuovi aspetti della sua tecnica espressiva. Nelle prime due opere si nota una certa ampollosità e il linguaggio è intriso di espressioni un po’ enfatiche, che scompaiono completamente però, senza lasciare traccia, in quelle successive. Molto frequente è l’uso del discorso diretto, che permette di ottenere una discreta immediatezza e garantisce la naturalezza di uno stile sciolto e non appesantito da troppe lungaggini.
    Ma la Salvioni rivela le sue doti di narratrice soprattutto nella capacità di calarsi nei personaggi senza sovrapporsi ad essi. Si percepisce la sua presenza e si coglie la sua personalità dietro alcune delle figure femminili più riuscite: non c’è mai una pretesa di assoluto oggettività, tuttavia la scrittrice sa calibrare il tono e il registro con vera maestria in base alla psicologia del personaggio e alla sua estrazione sociale.
    Gli uomini e le donne che vivono nei suoi romanzi non seguono un copione prestabilito, ma esprimono con le loro parole il loro mondo.
    E’ un linguaggio contadino quello di Stella, versato nelle cose, dimesso e schietto, non allusivo.
    Sono le ‘cose’ stesse  a parlare e non potrebbe essere che così per una donna che vive di concretezza e di quotidianità, di fatica e di sacrificio: è l’espressione immediata di chi non evita gli ostacoli con giri di parole, ma raggiunge subito l’obbiettivo.
    Ben diverso è il modo di parlare di Angelica Urban, controllato e ricercato,  e di sua sorella Maddalena, che si fa addirittura manierato e rispecchia, soprattutto nella prima parte del romanzo, gli effetti dell’educazione che veniva impartita alle giovani di buona famiglia. A ciò si unisce una sua naturale incapacità di esprimere liberamente i propri sentimenti, che vengono spesso condensati e convogliati in frasi di una ineccepibile, ma sentenziosa saggezza:
     “Quando non si fa il male non si devono temere le ciarle dei malevoli. La maldicenza è dannosa non solo perché distrugge il buon nome di una persona, ma anche perché toglie a quella persona una delle ragioni che possono trattenerla sul retto cammino: il rispetto di sé….”
     E il linguaggio si fa portavoce dei sentimenti e degli umori dei personaggi, rivelando talvolta più di quanto essi non dicano, come nelle schermaglie amorose tra Elena e Scaini in “Pietro Ventura”, costruite su un malizioso gioco di corteggiamento, fatto di allusioni, di ironia e di finzione.
    Quello della Salvioni è uno stile narrativo che, pur nella varietà dei toni, si mantiene sempre piano e lineare: la scrittrice non amava l’eccessiva sostenutezza e guardava prima di tutto all’accessibilità ed alla carica comunicativa della sua prosa, riuscendo tuttavia ad armonizzare questa esigenza con una certa sperimentazione in campo stilistico.
    Il romanzo “Danaro” ci offre l’esempio di uno stile molto particolare: in quest’ opera la Salvioni si serve della tecnica del ‘monologo interiore’ per poter seguire passo per passo i pensieri di ‘Dina’, la protagonista, nel corso di una giornata destinata a mutare radicalmente il corso della sua vita.
    La scrittrice non si spinge ad abbattere completamente le strutture sintattiche della frase, non arriva al ‘flusso di coscienza’ joyciano, tuttavia, annullando i limiti dello spazio e del tempo, conferisce a questo romanzo una notevole originalità.
    Se in “Danaro” il tempo viene considerato e concentrato in una sola giornata, ne “I nostri anni migliori” si dilata e si spezza insieme: nella trama vi è un salto temporale di vent’anni ed i protagonisti, ritrovandosi dopo tanto tempo, ripensano al loro passato. Tale espediente non suscita tuttavia nel lettore una sensazione di artificiosità, perché la Salvioni riesce a creare intorno ai personaggi un’atmosfera di grande naturalezza e credibilità che rende questo romanzo, dalla forte impronta corale, particolarmente interessante.
     Nella consapevolezza di non poter dare un quadro esauriente della produzione di questa scrittrice, penso che sia comunque interessante soffermarsi ancora un po’ sul romanzo che io ritengo il risultato più alto:”Intanto Erminia…” del 1956.
    E’ un’opera singolare anzitutto per la forte componente di autobiografismo: la vita di Erminia si intreccia con quella della scrittrice, prima bambina e poi divenuta donna quando la vecchia governante di casa Salvioni muore.
    Erminia è molto giovane quando scoppiano i moti del ’48 e diviene una testimone inconsapevole e disorientata di cambiamenti storici e sociali di cui non comprende se non il disordine e lo stravolgimento della vita modesta, ma tranquilla che la sua vita conduceva. Il padre, un conservatore convinto, non sa adattarsi al nuovo ordine delle cose. Dopo la sua morte, Erminia e la madre trovano una sistemazione nella casa del fratello abate, in una sperduta località di montagna. Qui Erminia conduce una vita molto ritirata e il suo isolamento è reso ancor più rigido dalla necessità, per una donna nubile, di non dare adito a pettegolezzi.
    Pur essendo ancora giovane si adatta a vivere nell’ombra, senza mai lamentarsi, anzi in qualche modo serena perché convinta dell’immobilità della pacata sicurezza della sua vita.
    Ma dopo la morte della madre e la prematura scomparsa del fratello, conoscerà ben presto la mancanza di gratitudine dei parenti e delle molte persone che Don Cesare aveva aiutato con una generosità che oltrepassava spesso i limiti delle sue possibilità. Tutti sembrano ansiosi di liberarsi di lei. Ed Erminia, con rassegnazione, ma con profonda dignità, decide di trovare lavoro come governante per potersi mantenere.
     E’ qui che la vita della famiglia Salvioni entra nel romanzo: Emilia era allora molto piccola, aveva perso la madre e rimarrà poi sola con il padre quando la sorella maggiore verrà mandata studiare in collegio. La governante diventerà perciò naturalmente un punto di riferimento per la bambina, un porto sicuro in cui rifugiarsi. L’affetto e l’intimità che si stabiliscono tra Erminia ed Emilia sono evidenti in alcuni episodi molto significativi: una volta il professor Salvioni si era scordato di preparare la calza per la Befana ed Erminia, per non deludere le aspettative della bambina, spende di nascosto i suoi pochi risparmi. In un’altra occasione Emilia, divenuta più  grande, scopre di aver perduto la grammatica di latino e, angosciata al pensiero dei rimproveri paterni, trova ancora una volta nella governante un valido aiuto: il libro, recuperato in un mercatino dell’usato, diviene motivo di affettuosa complicità.
    Erminia era una donna semplice, nel sentire e nel comunicare, ma non per questo meno profonda: lo dimostra la sua capacità di comprendere e consolare Emilia, ormai cresciuta, di fronte alle inquietudini e agli impulsi di ribellione tipici degli adolescenti.
    Quando, ormai vecchia e non più autosufficiente, Erminia trova posto in un ricovero per anziani, Emilia prova un profondo dolore per non essere in grado di stare vicino fino in fondo alla donna che l’aveva allevata. Sente di mentire promettendole una diversa soluzione, prospettando un suo imminente ritorno a casa, e sa che Erminia e consapevole di ciò, ma finge di crederle, abituata da sempre ad accettare ciò che la vita le riserva.
     Alcuni brani di questo libro sono molto commoventi, primo fra tutti il momento dell’ultimo addio fra Emilia ed Erminia, ma ciò che rende quest’opera così vera è il realismo sobrio e privo di divagazioni che la caratterizza. Scompare la narratrice per lasciare il posto ad Emilia, prima bambina e poi donna, tuttavia la scelta della Salvioni di raccontare episodi e vicende della propria vita, non toglie efficacia narrativa al romanzo, al contrario, caduta ogni mediazione, gli conferisce un’eleganza e un realismo non comuni.
    Anche altri personaggi vennero ispirati alla scrittrice da persone conosciute, ma Erminia non è la protagonista di un romanzo, è una persona vera.
    La personalità di Erminia viene delineata con rara efficacia: quella che viene descritta è una donna che per sua natura parlava poco ed era cresciuta all’ombra del fratello seminarista. Durante la sua giovinezza non le era mai parso possibile, non soltanto esprimere, ma persino desiderare qualcosa di diverso da ciò che per lei disponevano i genitori. Per tutta la sua esistenza rimane ai margini della vita, devota e sottomessa, una figura di contorno di contorno nella vita degli altri.
    Tuttavia la forza con cui sa adattarsi alle necessità della vita rivelano la sua grande energia interiore e, in qualche modo, l’affetto che la unisce ad Emilia la ripaga per tutto ciò che la vita le ha negato.
    Si sente la commozione nelle parole della Salvioni, soprattutto quando rivede se stessa, ancora bambina, mentre ricerca fra le braccia della vecchia governante l’affetto e le attenzioni che solo una madre può dare, ma il tono della narrazione non diventa mai lacrimoso, ed Erminia, con la suo devozione, il suo ritirarsi nell’ombra, riesce ad emergere insieme alle protagoniste femminili dei romanzi della Salvioni  per la sua composta dignità e, in fondo, per la sua forza, una forza non appariscente, ma non per questo meno vera.
    In una nota posta alla conclusione del romanzo la scrittrice dice: “Da tempo desideravo scrivere questo libro: sarebbe stato non un monumento, no certo, ma una croce di legno dedicata a una memoria carissima. Ma ne mancava però il coraggio. E’ tanto difficile, non solo per me, ma anche per giovani di valore sicuro, fa r accettare ad un editore un manoscritto che non risponda a certe sue esigenze e premesse, perché sgorgato dall’umanità dell’autore. Per lavorare in piena libertà ed abbandono bisogna godere di larga fama e aver raggiunto primati di vendite. Non è il mio caso.”
    La validità di questo romanzo, “la povera e nuda storia” che la Salvioni dedicò ad Erminia, venne riconosciuta dai critici che le assegnarono il premio Manzoni, tuttavia la scrittrice presagiva in qualche modo quello che sarebbe stato il destino della sua opera.
    Nel 1947, in un’intervista pubblicata su “Traguardo Azzurro”, la Salvioni conclude con queste osservazioni un bilancio della sua attività letteraria:
    “La critica mi è stata abbastanza favorevole, il pubblico non mi ha né adottato né respinto.
    Il mio è stato un successo mediocre, più scoraggiante di un successo”
     A dettare alla scrittrice queste parole così amare furono senza dubbio lo scoraggiamento e la delusione di chi, consapevole delle proprie doti artistiche, non le vedeva sufficientemente riconosciute ed apprezzate. Una spiegazione della scarsa attenzione che la critica rivolse all’opera della Salvioni si potrebbe forse trovare nella molteplicità stessa delle attività letterarie a cui si dedicò contemporaneamente, senza concentrarsi su quella che le stava più a cuore; tuttavia, a mio parere, non è tanto nelle opere della Salvioni, molte delle quali di indubbio valore, che va ricercata una ragione della sua scarsa fortuna, quanto nella sua stessa personalità, schiva e così poco propensa  a lanciarsi nella lotta per il successo. 
     Ma soprattutto, al di sopra di ogni tentativo di spiegazione, io penso che non si sia verificata per nessun romanzo della Salvioni, neppure per quelli che ottennero dei riconoscimenti ufficiali, quella particolare condizione favorevole che, unita ai pregi artistici, determina il successo di un’opera.
     Ma se a distanza di molti anni dalla sua pubblicazione, “Intanto Erminia…” non può non affascinare il lettore per l’efficacia e la semplicità con cui la nostalgia del ricordo personale si trasforma in racconto, viene spontaneo auspicare che, a mezzo secolo di distanza, di fronte al proliferare di pubblicazioni spesso di scarso valore, ma di tanto clamore, il talento letterario della Salvioni possa finalmente trovare il meritato riconoscimento.

 

  Note su Angeliche colline di Emilia Salvioni *

di Paolo Baroni

Paolo Baroni, laureato in lettere, con esperienza di insegnamento in Italia e all'estero, 
si è occupato principalmente di letteratura francese cui ha dedicato interessanti interventi critici.
* Articolo in corso di pubblicazione

  Il piacere della lettura di questi testi è certo l’effetto di una scrittura di pregio. Il libro è anche la testimonianza di diversi sentimenti – o modi di essere. Dominante, benché contrastata, è una positività di fronte all’esistere: allegrezza, vivacità, quiete, perseveranza…  
            Una scrittura che sa imbrigliare la malinconia inevitabile di una già lunga esperienza riflessiva condotta su di sé e sorretta da una capacità di osservazione cui poco sfugge del mondo.  
            Una raccolta di testi che rinviano ad una saggezza che guarda diritta, senza troppo rammarico, un ampio percorso di tempo; con il sentimento di riconoscenza che si prova, verso uomini o cose, quando si sente che, proprio loro, ci hanno concesso di vivere, di muoverci, di progredire: ci hanno aiutato, insomma, a fare di noi quello che siamo.
            Una raccolta di testi, brevi, quasi frammenti di un testo più vasto adagiato in attesa in un luogo profondo, recondito; e di cui appaiono schegge e sprazzi, in superficie. Schegge galleggianti, che si scontrano, si raggrumano; frammenti la cui sostanza, alla fine, risulta percorsa da indicazioni di senso, intenzioni, emozioni, pensieri…  
       Ogni testo è l’evocazione di un ambiente, di un luogo in cui l’anima vorrebbe prender fissa dimora. Eppure alla fine, quasi sempre, all’ultimo capoverso, in un riemergere che è un confronto della coscienza con il reale più attuale, si assiste alla denuncia di un inganno, le parole si affievoliscono nella considerazione di un’impossibilità: “La chiamavo dentro di me la terra promessa, forse esisteva, forse no. Ci ritornai da adulta, ma non era più la stessa, nemmeno io potevo ormai rintracciare le gioie segrete, i misteriosi incanti della lontana infanzia” (La terra promessa, p. 52).  
            La creazione letteraria concretizza, sì, l’emozione di momenti esaltanti nei quali confondersi. Ma la gioia, la pienezza che viene dall’idea di possedere un mondo evidenzia anche una discontinuità degli stati d’animo. L’attenzione per il ricordo, per il reperimento di momenti privilegiati della propria storia fa risaltare un movimento ondulatorio della coscienza di . Un che si vorrebbe continuamente identico, inattaccabile, la cui durata fosse prova indiscutibile di identità. Dinanzi a ciò che sfuma nel tempo, alla sparizione pressoché definitiva dei momenti più pieni, in cui più intensamente potevamo riconoscerci, un lavoro s’impone: il recupero possibile degli istanti solenni, o guizzanti, di cui ci si accorge che sono sì scomparsi, ma non tutti, non interamente: alcuni, scoloriti, rimangono. Chissà, forse in qualcuno di questi testi della memoria sta racchiusa la premonizione di un segreto o la possibilità di fare un’inattesa scoperta. Forse, dopo tutto, il reale lo si può intaccare… Questo è il clima che supporta Angeliche colline
            Infatti, la festosa animazione di un mondo che si era creduto definitivamente perduto, si configura grazie alla forza di una felicità di vivere che non è semplice dono o favore del destino. Qui si tratta dell’effetto di un’applicazione, costantemente rinnovata, tesa a vincere una resistenza.  
            
Per questo la nostra attenzione si applicherà ad evidenziare aspetti un po’ in ombra, che hanno spazio limitato nei testi; aspetti dei quali, tuttavia, si riscontra sicura traccia. Se non si scruta la dimensione della pesantezza si perde qualcosa del valore di Angeliche colline. Come ben si vede nella Vela, nulla è possibile, nessuna partenza può aver luogo senza la resistenza del vento. “Pare impossibile, come la signorina monta in una barca, così cade il vento. – E’ vero, Costanzo, è proprio così  (La Vela, pp.119-120 ). C’è già qui il sentimento di un’umiliazione per l’indifferenza che corre tra noi e le cose. Indifferenza o addirittura malizia delle cose, le quali si spostano, cambiano direzione, si sottraggono alla nostra presa, per una necessità imperscrutabile; sembra perfino che noi stessi ci muoviamo in senso inverso rispetto ad esse.

 

*     *     *

              Cosa grave la vita, - e spesso greve. Per questo si vorrebbe evitare ogni dispersione, ogni inutile girovagare, metterci al riparo dagli errori, dagli inganni, conoscere la formula, il numero…Perché anche quando ci crediamo ormai avveduti, troppo spesso, siamo obbligati infine a denunciare che abbiamo sbagliato. E non sempre è lecito sorridere dei nostri errori e di quelli altrui.  
             Si tratta, spesso, di cose senza conseguenze di rilievo.  
            
Nell’Angelo s’inganna la superiora del collegio. A tal punto che scambia per figura angelica proprio una bambina che delle qualità, che la tradizione chiede per configurare l’angelo nella cerimonia sacra, è sprovveduta. E lei, la bambina, a considerare il destino delle sue poche bellezze esteriori: “L’unica mia ricchezza era una capigliatura biondissima, ma sfortuna volle che quell’aureo dono risvegliasse il malinteso orgoglio di qualche nonna o zia, che ne divenne cupidamente gelosa. Perciò i miei capelli dovevano star serrati in una trecciolina rigida e dura, in una specie di codino cinese” (p. 21).  
            Si può sorridere, francamente, dell’errore della monaca. Quanto all’invidia, si sa, è il motore del mondo… Ci si può fermare un momento, sì, stupiti: umane debolezze, come si suol dire. Le cose si fanno invece più inquietanti se qualcuno incespica sui coinvolgimenti affettivi cui teniamo maggiormente. Si veda nel testo La Befana: un padre, che pur ama con tutta l’anima la figlioletta, può infliggerle, ciò nonostante, un’acuta ferita col dimenticare, senza apparente motivo, il dono rituale per lei.  
            Errori? Talvolta è una guerra desolante che ci confina nell’estraneità e nell’ingiustizia. Come nella Contessa: “Si sapeva che tra la madre e il figlio avvenivano scenate violente” (p. 107) e che alle figlie “tornava utile quello che alla madre non serviva quasi mai” (p. 107). E la madre, che amore è il suo?  
           Si direbbe che perfino nell’amore, con il quale avevamo pensato di saper vedere ben più lontano che non con i semplici lumi della ragionevolezza, l’amore, al quale avevamo attribuito, forse, la capacità di non sbagliare mai, anche nell’amore, qualcosa s’intoppa, qualcosa produce effetti inattesi; anche in esso l’errore s’insinua.  
         Sono constatazioni semplici, che pure confermano un dubbio sulle capacità di orientamento e di continuità della persona.

Ma ci sono frustrazioni decisamente più angosciose: “L’osteria si trovò presto in piena linea di battaglia: bombardata furiosamente, crollò. C’è ancora la stazione e il piazzale è sempre lì. Gli alberi della strada napoleonica hanno di nuovo il loro superbo fogliame, ma tutto ha cambiato aspetto. Un albergo, con la facciata adorna di fregi in cemento, ha preso il posto dell’osteria, e lì presso, un distributore di benzina allinea colonnette di un rosso fiammante. […] Il sole batte sempre con la stessa veemenza sui muri e sulla ghiaia, verso sera giunge quel filo d’aria dal fiume…ma non è più la stessa cosa” (p. 67).  
          Non si tratta più di eventi che, con l’impiego di una buona volontà, dopo tutto, potremmo anche accontentarci di definire incidenti di percorso, cadute momentanee della coscienza. Debolezze umane, ancora una volta, alle quali si potrebbe, in ultima analisi, portar riparo? Cose da rivedere, che si aggiusterebbero solo a correggere la mira?  
           
Ma non è più la stessa cosa”. La constatazione è di quelle che inchiodano al muro: tutte le cose muoiono. Il tempo, dentro di noi, è una violenza irrevocabile. Solidifica per sempre i nostri sentimenti. Sicché, nel tempo, le nostre affermazioni si riducono ad un susseguirsi di istanti senza continuità. Azioni e pensieri che qualcosa a noi estraneo riduce fino a far svanire nel nulla. È come se ad un io se ne sostituisse un altro. Il passato diventa appena un ricordo, così pallido, sempre sul punto di sparire.  
           Dove sta l’essenza di noi stessi? Ciò che in noi deve durare? La nostra condizione sarebbe solo un divagare nella costellazione degli addii? Si può pensare che sia così, a rileggere la conclusione della Voce del tuono: “Le nuvole fuggivano verso la pianura, umiliate, nerastre. Il tuono seguiva borbottando, in tono sempre più basso, sempre più rabbonito. Ero contenta del ritorno del sereno, eppure m’attristava quella voce che s’allontanava come in un saluto d’addio…” (p. 28)  
           Sono molti gli addii di Angeliche colline. La constatazione è solenne, definitiva, senza rimedio. Da Giardino pubblico: “Quando, diventata grande, ho voluto mescolarmi ai giuochi degli adulti, mi sono accorta che anch’essi mi accoglievano nei loro gruppi soltanto in apparenza. Ho finito quasi sempre col tirarmi da parte e restarmene sola a guardare lo zampillo della fontana, col cuore stretto, come facevo da bambina al giardino pubblico.” (p.36).  
           Apparenze, dunque, i nostri atti, le nostre agitazioni. Nell’umana commedia l’illusione scandisce con i suoi tempi, i modi dei nostri amori, giudizi, ragioni, delle nostre azioni, sublimazioni…  
          Vivere, sarebbe quindi ingannarsi, inseguire fantasmi sul percorso di un maligno gioco di specchi.

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  Pure, in Angeliche colline, si è accolti in un mondo che risuona anche di stupefacente allegrezza. Case, campi e pendii, alberi, strade, borghi, il torrente e gli uomini, sorgono dinanzi noi nell’atmosfera di una gioiosa e pensosa connivenza: si insinuano come presenze amichevoli, che scopriamo o riconosciamo.  
          Questa descrizione del mondo è – fondamentalmente – un’accettazione, il segno di una felicità.  
          Il valore di ogni essere umano non sembra essere messo in questione. Quel che appare dominante è l’attenzione, la pretesa di non sbagliarsi sul valore degli esseri e delle cose. Si tratta di farli partecipi della felicità nostra, di esercitare il nostro discernimento perché suoni, colori, sentimenti, con il peso che è loro naturale, siano presenze per la nostra contentezza di esistere. Di qui, appunto, la puntigliosa descrizione, l’immersione nel mondo sensibile che la scrittura – scrittura poetica – opera con delizia abbondante. Non fantasmi, ma spessore di cose. Cose e persone, profumi, odori, suoni e movimenti, stati dell’animo – lontani nel tempo e presenti – sono percepiti nel recupero di un piacere, anche se ad essi scivola sovente vicino l’accento di un rimpianto.  
        Un progetto di presenza e di pienezza che non cancella, certo, il ricordo di motivi di lacerazione, lì a far da contrappunto ad un più intenso possesso di sé. Gli affetti, le figure della memoria vengono a distendersi in limpide superfici, come sciolti e distinti da una necessaria oscurità o indeterminatezza e ricompongono trame, figure di senso.  
         Una scrittura chiara, diritta, comprensibile, che comunica a tutti.  
         Il senso si concentra nel dinamismo delle immagini, vibranti, limpide, aeree, pregne di una leggerezza in progressione continua. C’è un accento di libertà nel proiettarsi dello sguardo dalla terra al cielo in movimento, nel desiderio che induce le cose a muoversi, a resistere, impennarsi o sottomettersi. È un modo di contemplare.  
          Nella Voce del tuono – scritto emblematico, giustamente ammirato – vi è certo lo spazio dell’ira che incombe. Ma tutto è tonico di spostamenti turbinosi, di mobilità descrittiva, di speranze definitive. Uno slancio di vita, di elevazione:  Lassù, sopra la più alta montagna turchina, appariva un ritaglio di cielo chiaro, splendeva nel crepuscolo temporalesco come una promessa” (p.27).  
          Lo stesso frammento di cielo chiaro lo incontriamo in Terra promessa:  In certi punti un brandello di cielo rosato, un ritaglio di nube splendente, specchiandosi nel fiume, interrompevano con una chiarità improvvisa il soave presentimento della sera” (p. 52).  
          Il mondo è dunque quello che è. Ma sembra, almeno per un istante, di percepire il desiderio – la sicurezza, anzi – che tutto emani calore. Il calore che la vita sa dare nell’immediata sua manifestazione o natura. Anche il male, dunque, manifestazione della vita, potrebbe far parte di quel mondo di pienezza. Come per la bambina di Carnevale che dai vetri della finestra, nella giornata di pioggia, si accende di desiderio sulla scia delle maschere in domino, per la stradetta malfamata: “La bambina sostava incantata dinanzi alla doppia schiera di figure misteriose, osservando ogni particolare e specialmente i ricami in lustrini d’oro e d’argento, con trasognata passione. Invidiava le megere deformi che vivevano nei minuscoli retrobottega e sembravano ragni in agguato presso alla tela scintillante di rugiada” (p. 59).  
          “Quella era una strada malfamata e la bambina lo sapeva. Una brutta strada, le dicevano, pensando che non capisse il significato delle parole, mentre essa aveva un concetto inesprimibile, ma preciso del male che s’annidava fra le mura screpolate e dietro le persiane fradice. Non detestava quel male e non ne aveva paura, benché fosse così vicino, che quasi poteva toccarlo” (p. 58).
          È appena il caso di dire che la vena anticonformista ed ironica di Angeliche colline non conosce la tentazione di un’adeguazione di bene e di male. Questo perché il piacere non è una questione di facilità, di abbandono irriflesso all’ordine delle cose così come si presentano a noi o ci sono date.
          Il fatto è che la coscienza, Emilia Salvioni, non l’esclude mai. E con essa, inevitabilmente, il desiderio di una giustizia da riaffermare o, eventualmente, da riscoprire.  
          Ci eravamo lasciati incantare dalla naturalezza del ritmo dei testi, fino a dimenticare, quasi, che di una questione morale si trattava; benché in essi, appunto, non ci si scontri mai con l’intenzione, o la presunzione, di rifare l’uomo e le cose da cima a fondo.

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Allora val la pena di riconsiderare i margini del male di vivere, della frustrazione incontrati all’inizio, perché forse nei loro risvolti sta anche la premonizione di un impulso vitale, di un sapere diverso.
         Le fratture di una coscienza individuale, si diceva, ma anche le faglie che allontanano gli uomini l’uno dall’altro. L’esperienza della separazione: “Gli ultimi visitatori sedevano in faccia all’ospite, desolati e compassionevoli, ma nemmeno ora osavano esprimere i loro sentimenti o venirle in aiuto” (La contessa, p. 108).  
         Inconsapevoli vittime del proprio orgoglio, gli uomini stanno, ristagnano, imputridiscono in un reciproco ignorarsi. Inganno crudele quello della coscienza orgogliosa, che si vuole paga di sé, che non si trascende nell’altro. Inevitabili seguono vuoto e dolore.  
         
Coscienza insoddisfatta, quindi preziosa, quella di Emilia Salvioni, perché coscienza produttiva, che vuole escludere l’indifferenza. Così la risposta - sviluppo necessario - si presenta presto. Se non ancora formulata con chiarezza, la si intravede in trasparenza.  
          Rileggiamo in Vendemmia: “Era ormai calata la sera. Correvano le donne con i lumi. Due giovanotti scalzavano e si sciacquavano i piedi nella vasca. Poi li vedevamo danzare là in alto, sull’uva, alla luce delle lanterne. Era un po’ triste pensare ai grappoli gonfi e dorati, che si frangevano sotto la spinta energica, per noi che amavamo l’uva più del vino, ma ci distraeva l’animazione intorno, soprattutto quando, aprendo la cannella, cominciava a colar fuori il mosto torbido e biondo e se ne riempiva il primo boccale. Lo zio, in piedi al suo posto di comando, lo assaggiava per primo schioccando la lingua una volta o due, prima di far cenno d’assenso” (p. 74).

 Hanno faticato dall’alba al tramonto, ora gli uomini convergono nell’ombra per l’attesa. I piedi dei giovani scalzi impastano l’uva nel tino. La gente si addensa, intorno al punto della trasformazione, nell’ansia del giubilo che precorre l’offrirsi del dono. Sanno che l’uva viene dal sole e dalla terra. Nell’oscurità le luci spiano il rito: chissà da quale notte, da quale tempo…Ormai la poltiglia nel tino ha raggiunto l’impasto ideale. La consistenza dell’uva si scioglie. L’asciutto è ora molle, bagnato. È come l’equilibrio di una dinamica. E allora ecco il mosto: la sostanza della conversione. I bicchieri si riempiono e si beve. Un movimento nuovo appare, una danza collettiva, tutti insieme.  
           
Qui si legge l’annuncio di una morale in cui non trovano posto lacerazioni, pietrificazioni… Così, è conseguente che, un po’più avanti nel testo, si trovino immagini di questo tipo: “Quando si tornava al lavoro cominciavano i canti. I contadini delle nostre parti hanno un modo tutto loro di strascicare le note malinconicamente, le fanciulle con voci di testa acutissime. Se i nostri sospendevano il canto, un coro identico, con le stesse note in falsetto, giungeva a noi dal pendio opposto della valletta. Il sole già si faceva sanguigno e giallo vivo era il colore del fogliame delle vigne e delle macchie di castagni. Tutto ardeva come fuoco davanti agli occhi, finché un primo velo di nebbia saliva dal torrente in fondo alla valle e via via gli altri, ciascuno più turchino e più fitto” (p. 75).

            La parola, dunque, il canto, insieme. Si scioglie la troppo lunga connivenza della coscienza con se stessa. “Il sole già si faceva sanguigno”, “Tutto ardeva come fuoco”. La fantasia infuocata conduce verso un al di là. Al di là della sponda dove si stava impietriti senza la forza di cercare il guado. Ora il sangue del sole è promessa di un mutamento sostanziale di vita, di vigore ritrovato. Il fuoco arde, brucia le barriere e fa luce. Illumina gli altri, il pulsare segreto di vite spesso sommesse. La separazione si stempera. Sorge insomma la disponibilità essenziale a non fare della felicità individuale il sistema di annullamento della presenza altrui.

            Adesso le cose sembrano più chiare, più distese. Più chiaro il senso dell’accettazione, di cui questo libro è un canto. Se lo si riapre, daccapo, quale consonanza di immaginazione ritroviamo fin dalle pagine del Bucato!... “Mi par d’esserci ancora: vedo le facce delle donne contratte dalla fatica e trionfanti nel tempo stesso” (p. 17). Anche qui in relazione con la sostanza perfetta che è la pastosità delle cose: “rimaneva un intruglio grigio scuro, pastoso, sparso di chiazze liquide, simile a una pianura che emerge da un’inondazione” (p. 18). Lo slancio del trionfo, della fatica comune, corale… all’origine dell’emergere di una terraferma… Come in un sogno o come un risveglio. L’emblematica scena di Vendemmia lascia intendere lo spiraglio che si presumeva nascosto: la minaccia di parcellizzazione della coscienza nel tempo si dissolve nella felicità di un passaggio possibile. Oltre la separazione – quale inganno, ancora una volta, l’aver cercato soltanto in se stessi – sta il ponte, il transito decisivo. La continuità è semplicemente il riferimento ad altro da sè: “C’erano, sparsi sulla tavola, ritagli di stoffe variopinte e uova. Sulle uova sode dipingevano occhi, nasi, bocche, facce rubiconde […]. Preparavano quell’improvvisata per i bambini […]. Le due sorelle sorridevano quietamente lavorando” (Notte di Pasqua, p. 110).

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  Infine, sommesse, quasi furtive le lettere chiare della formula che si cercava: “Tutti e tre, senza dirlo, pensarono alla festa dell’indomani, alla Risurrezione, che riunisce la gente, che chiede la pace, cose tanto lontane da quelle di cui stavano ragionando” (p.111).  
            L’appello alla “festa che riunisce la gente” è il motivo d’ispirazione più alto di Angeliche colline. È la premessa sottesa ad ogni testo. Umiliazione e separazione non hanno più presa ove sia conquistata la rivelazione di una specie d’amore attivo, che nasce dalla coscienza di come nessuna salvezza sia possibile da soli.  
            Il motivo della festa si sprigiona con slancio solenne nel testo che dà il suo nome alla raccolta, Angeliche colline. V’è in esso una duplicità inattesa di piani, là dove la processione pasquale è definita come “festa primitiva” (p. 63). Un percorso si chiude e uno spazio inatteso illumina soluzioni aperte, possibili… L’uomo e le cose muoiono, s’è detto, e il nostro destino di dipendenza e di solitudine persiste. Ma dallo zoccolo duro delle colline sorge il miracolo dei fuochi che ardono: “Intanto si scorgeva nella tenebra ormai calata, la tenebra più densa dei monti e delle colline. Ma queste ardevano tutte di fuochi [...] sicché di poggio in poggio i dossi scuri si ingemmavano di fiammelle chiare e brillanti. In quel modo pregavano le colline” (pp. 62-63).  
            Festa primitiva, di invocazione, di supplica, di esultanza. “Le case [...] avevano lumi a tutte le finestre e ne raggiava una luce d’aurora, trepida e rosata” (p. 62).  
            Festa primitiva, cioè festa essenziale, semplice, primordiale come quelle di lontani tempi…E’ qui che il testo evidenzia una dimensione insospettata, dalle conseguenze tutt’altro che trascurabili: la denuncia della sopravvivenza di un sentimento antico, sempre uguale, fin dai tempi dell’inizio della civiltà è la constatazione che, al di là dei nostri deserti ricorrenti, qualcosa dura nel tempo. Nella dimensione del sacro l’uomo saprebbe dunque opporre al suo destino la realtà di una persistenza che gli sembrava inizialmente negata.  
            
Certo, per Emilia Salvioni, scrittrice cattolica, la festa è fondamentalmente la Pasqua di Resurrezione. Il suo umanesimo necessita di un Altrove per trovare ai suoi occhi la giustificazione ultima, quella certa.
        
            In queste note si è voluto evidenziare ciò che unisce piuttosto che ciò che separa. Non è cosa di poco conto che questa creazione letteraria si possa situare, in definitiva, nel coro delle voci più significative che intorno alla metà del Secolo XX hanno pietosamente, umilmente sollecitato le ragioni per affermare l’uomo diritto, di contro agli scenari d’orrore a partire dai quali era ripresa l’instancabile inchiesta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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